Fabio Chiusi
Adesso anche Twitter, secondo quando aveva già annunciato, opererà una censura mirata sui tweet. Un sistema che piace a pochi, soprattutto perché spesso, dietro alle richieste di censura non ci sono i singoli ma i governi. Per controllarli, diverse associazioni per la libertà sulla rete hanno creato un sito, dove si può denunciare la censura subita, e ricevere informazioni al riguardo.
Il referendum sulle impostazioni per la privacy su Facebook. Il Transparency Report sulle richieste governative di rimozione di contenuti. Uno strumento adottato da Google e, per la prima volta a partire da ieri, anche da Twitter. Che ha inoltre annunciato una collaborazione nuova di zecca con Herdict, «che raccoglie e diffonde informazioni crowdsourced (cioè ottenute sulla base delle segnalazioni degli utenti, ndr) in tempo reale su sistemi di filtraggio online, attacchi denial of service, e altre forme di blocco». I colossi del moribondo - secondo Geert Lovink - web 2.0 cercano di rivestire di trasparenza il modo in cui gestiscono i dati dei loro utenti. E, soprattutto, in cui gestiscono l'avidità di informazioni e la prepotenza dei governi. Un trend che vede pressioni restrittive sempre crescenti. Lo ha affermato Google pochi giorni fa, lo ribadisce il rapporto di Twitter: «Abbiamo ricevuto più richieste dai governi nella prima metà del 2012 che in tutto il 2011», scrive la Legal Policy manager Jeremy Kessel sul blog ufficiale dell'azienda.
Ma se la mossa di Twitter è il mantenimento di una promessa fatta inaugurando la censura selettiva, su base locale, dei "cinguettii", non per tutti le informazioni fornite sono sufficienti. A maggior ragione in un momento storico in cui la battaglia per il libero web è diventata una questione geopolitica, economica e sociale. E in cui oltre 85 organizzazioni stendono una "dichiarazione della libertà di Internet" in cinque punti: libertà di espressione, di accesso, apertura, innovazione e privacy. Per implementarli correttamente, figure di spicco nella lotta alla censura online come Jillian York dell'Electronic Frontier Foundation e la co-fondatrice di Global Voices, Rebecca MacKinnon, hanno contribuito a dare vita al sito onlinecensorship.org. Uno spazio, spiegano i membri fondatori (tra cui figurano anche Ramzi Jaber e Ben Wagner), in cui «le comunità possono raccogliere tramite ilcrowdsourcing esempi di censura attuata da piattaforme private». Le stesse, in altre parole, che vorrebbero aver "fatto i compiti a casa" con un semplice "Transparency Report" autoprodotto.
Ora che i social media hanno fatto irruzione nello spazio pubblico la questione, scrivono ancora, è capire «quale ruolo abbiano le aziende private nel definire quali forme espressive siano accettabili e quali no». Perché quello spazio pubblico è in realtà di proprietà di pochi. E sono quei pochi a imporvi le regole. Onlinecensorship.org si concentra attualmente su cinque piattaforme, le più popolari: Facebook, Twitter, YouTube, Flickr e Google+. Come funziona? Prendiamo, come esempio, quella più diffusa al mondo: Facebook, oltre 900 milioni di iscritti. Un social network per cui da anni si leggono lamentele circa contenuti degli utenti rimossi senza apparente logica (in realtà c'è, ed è anche dettagliata in un documento pubblicato grazie a una fuga di notizie - alla faccia della trasparenza).
Il sito affronta l'utente con la domanda: «Che tipo di contenuto è stato cancellato?». Le alternative vanno dal profilo a una pagina, da un evento a un post. Facciamo conto che ci sia stato cancellato l'account senza motivo. «Ha ricevuto una qualunque spiegazione della cancellazione?», chiede ancora il sito. Rispondiamo di no. «Stava usando uno pseudonimo o un falso nome?», precisa, memore del fatto che su Facebook non si potrebbe fare. Ancora no. A questo punto il software fornisce la possibilità di spiegare cosa sia accaduto in un box, di spiegare se e quali altri contenuti simili siano stati rimossi. Fino a chiedere email e URL dell'utente. Procedure simili si ripetono per le altre piattaforme.
Il tentativo è aiutare l'utente a documentare casi in cui siano gli intermediari, e non i governi, a censurare. «I dati aggregati ci aiuteranno a distinguere pattern di censura in atto in diverse località geografiche», scrivono i fondatori del progetto. Non solo: «Questi dati saranno presentati in modo visivo in rapporti che, in forma aggregata, saranno resi disponibili anche a studiosi e giornalisti». Naturalmente senza rivelare nomi e cognomi di chi abbia compilato le segnalazioni. Attualmente il sito è disponibile solo in inglese, ma sono previste la versione in arabo, francese e spagnolo, tra le altre. Per contribuire, nello spirito collaborativo del progetto, si può manifestare la propria disponibilità all'indirizzo translate@onlinecensorship.org. Prevista anche l'estensione ad altri social network - molto interessante sarebbe includere piattaforme diffuse in luoghi come Cina e Russia, da Sina Weibo a Vkontakte - e l'automatizzazione della verifica di casi di censura.
L'idea, in sostanza, prosegue nella prospettiva argomentata da MacKinnon nel suo più recente volume, Consent of the Networked, in cui l'autrice sostiene che sia giunto il tempo di instaurare un modello multistakeholder di governance dei social media, in cui a essere prioritario sia il «consenso dei connessi» e non le decisioni insindacabili dei gestori. La battaglia si preannuncia lunga e complessa, nei regimi autoritari e - pur se in maniera diversa - nei Paesi democratici, troppo spesso vittima di una retorica assolutoria ed entusiasta nei confronti delle opportunità fornite dalle piattaforme sociali ai cittadini. E troppo spesso non sufficientemente severi verso il rispetto dei loro diritti.
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