di Roberto Di Caro

L'altra notte una loro cooperativa agricola è stata data alle fiamme nel casertano. Perché sui terreni sottratti ai clan, riescono a creare lavoro e a diffondere la cultura della legalità. E i boss non lo sopportano
Terra buona come non ce n'è, al Pontevecchio, accanto scorre il Petrace dei miti di Ercole e Oreste, se sputi per terra cresce un albero, dicono da queste parti: "Tant'è che la prima melanzana che ci piantammo venne su di un chilo e mezzo. Ma ci vollero tre anni....". I ragazzi ascoltano, trenta in maglietta rossa E!State liberi!, tutti dall'istituto-liceo Archimede di San Giovanni in Persiceto alle porte di Bologna. Stanno qua per una settimana, la mattina a estirpare erbacce (coltivazione biologica, niente diserbanti), il pomeriggio a incontri, visite e convegni su mafia e antimafia, cultura locale, parrocchia, associazioni e boy scout: al campo estivo della Cooperativa Valle del Marro, cuore in Calabria di Libera Terra fondata da don Luigi Ciotti per l'uso sociale dei beni confiscati alla mafia, centro aziendale a Polistena dov'è pure la parrocchia di don Pino De Masi, suo ideatore e mentore.

A raccontare ai ragazzi fatti e storia, in una pausa del lavoro sulle erbacce, è Antonio Napoli, 40 anni e una laurea su Derrida, uno dei nove soci fondatori della cooperativa ma tra gli ultimi a essere assunto, come operaio, responsabile dei campi che da giugno a settembre ospitano 450 volontari, in maggioranza studenti ma anche adulti. "Tre anni ci vollero, per il primo raccolto. Quando nel 2005 la nostra avventura ebbe inizio, in questo appezzamento non c'erano infatti che piante d'agrumi secche, soffocate da due metri di rovi e sterpaglie: costò una fortuna, e per mesi l'aiuto di una brigata internazionale di volontari, solo ripulire il terreno".

Confiscato alla cosca Piromalli dopo un farraginoso iter giudiziario, dato in proprietà al Comune di Gioia Tauro e in comodato d'uso trentennale alla Valle del Marro Libera Terra, questo di Pontevecchio è uno dei 20 appezzamenti affidati alla cooperativa, sparpagliati per un totale di 120 ettari in sette comuni nella piana di Gioia Tauro e appartenuti ai Piromalli, ai Mammoliti, ai Longo-Versace: perché ogni paese ha la sua 'ndrina, in un'intricata e mutevole geografia del crimine organizzato costruita su famiglie, alleanze, matrimoni, propaggini nelle istituzioni, appalti, assalto ai fondi europei, evoluzione finanziaria ed espansione al Nord e in Europa.

"Scomodo" è l'aggettivo gergale che, per definire questa loro esperienza, usano Ilaria, Filippo, Francesca, Sofia, Matteo e gli altri studenti. In slang significa fuori norma ma per questo apprezzato, intenso, degno d'essere vissuto: scomodo, ti dicono, "è girare con queste magliette tra chi ti sorride e ti avvicina e chi ti guarda storto, scomodo è estirpare le male piante dai terreni come dalla mentalità, scomode sono le storie delle persone, che più delle teorie ci affascinano. Scomodo è infine scoprire che non è vero, come pensavamo, che questa terra, la Calabria, è persa".

Non che la battaglia sia vinta: "In un rosario di attentati e sabotaggi", indica Antonio, "quel cancello di ferro è stato divelto, le due ante saldate come a dire "per voi tutte le porte sono chiuse", trafugato un trattore, grippati con lo zucchero i motori di camion e macchine agricole, bruciate o tagliate 700 piante nell'oliveto Principe di Cordopatri. Ma noi ne abbiamo ripiantate 1.200: hanno già dato il frutto, fra due anni produrrano a pieno regime".

Don Chisciotte contro i mulini a vento in un'estenuante contesa buona come esempio e testimonianza per le scolaresche ma poco di più? Vivaddio, è vero il contrario, e a dire le cose come stanno è un po' questa la sorpresa. Se qui (e più ancora, il mese scorso, nelle altre cinque cooperative in Sicilia, Puglia, Campania più tre in via di costituzione), le mafie fanno guerra a colpi d'incendi e sabotaggi, è perché la macchina di Libera ha cominciato a incidere sui territori dove opera, a scalfire usi e poteri costituiti, a far danni e a guadagnare consenso.

In un palazzo confiscato alle cosche ci sistemi una caserma dei Carabinieri o della Guardia di Finanza, come già a Gioia Tauro, e il gioco è fatto, hai piantato la bandierina dello Stato. Ma coi terreni è diverso. Se, requisiti, restano abbandonati, parte il leitmotiv "sotto le famiglie almeno si lavorava": l'antimafia dei tempi biblici, anni tra svolazzi di carte per assegnare un terreno, è un flop. Cambia tutto se quel podere riesci invece a farlo rinascere e produrre. O a ottenerlo in uso prima che deperisca, sequestrato benché non ancora definitivamente confiscato: come da poco s'è cominciato a fare.

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