Arianna Bassoli

Da qualche mese a questa parte l'universo startup italiano è in fibrillazione. Le testate mainstream hanno cominciato ad interessarsi all'argomento, si sono moltiplicati gli eventi e i contest per startup in tutta la penisola e, per fortuna, si stanno moltiplicando i casi di successi: startup italiane che vincono contest internazionali (come Le Web e Seedcamp), vengono acquisite (nel caso di Glancee e Jobrapido) o ottengono finanziamenti consistenti (vedi Spreaker e Mopapp). E il tema non tarda a balzare agli occhi dei politici, che arrivano a farne cavallo di battaglia in fase pre-campagna elettorale. Come molti sanno, il ministro dello Sviluppo Economico Passera ha recentemente costituito una task force di esperti il cui compito è contribuire alla definizione di un decreto legge, che uscirà a giorni, con lo scopo di favorire la creazione di un ecosistema startup italiano.

Infatti per quanto è vero che in Italia c'è tanto fermento e tante buone idee, è anche innegabile che le condizioni per creare un ecosistema stile Silicon Valley (o anche le più recenti Silicon Alley di New York o Silicon Roundabout di Londra) sono ancora lontane dall'essere presenti. Uno dei compiti più ardui della task force è dunque capire quali sono le condizioni di base su cui bisogna puntare per far confluire tutta l'energia presente verso risultati concreti e sostenibili nel lungo termine. Ci vogliono più soldi? Manca la cultura? È un problema di formazione? E, soprattutto, qual è il ruolo dello Stato in tutto ciò?

Pur avendo al suo interno le competenze necessarie, la task force ha chiesto "aiuto" anche alla community startup italiana, prendendo in considerazione le diverse categorie che ne costituiscono l'ecosistema: startupper, VC, incubatori e grandi imprese. I rappresentanti di queste ultime sono stati chiamati a partecipare ad un evento tenutosi a H-FARM il 26 maggio, l'Open Day, in cui Passera stesso si è confrontato con chi aveva proposte concrete da fare alla task force. Queste sono state poi messe insieme per essere votate dal pubblico sul sito di Italia Startup, la fondazione nata dalla task force (ndr: la votazione delle proposte è ancora aperta).

Per arrivare "preparata" all'Open Day, a cui ho partecipato come startupper, e anche perché penso che la mia sia la categoria meno rappresentata ai vertici delle discussioni sul mondo startup, ho cercato un modo per dare voce agli startupper italiani. In particolare mi sono chiesta: quali sono i problemi più sentiti da chi ha le mani in pasta, cioè da chi ha aperto (recentemente) e cerca di portare avanti una startup in Italia? Soprattutto, se bisogna fare un sistema di priorità, per capire da dove iniziare ad affrontare i problemi esistenti, qual è la questione in assoluto più pungente? Per cominciare a rispondere a queste domande abbiamo perciò deciso di organizzare al Miur, qualche giorno prima dell'Open Day, un workshop dedicato agli startupper, in cui abbiamo invitato 15 persone che riteniamo essere rappresentative di questo mondo, per discutere e creare una top 5 dei problemi più sentiti.

Prima del workshop, che si è tenuto il 24 maggio, abbiamo chiesto alla community di contribuire con le loro idee, sulla stessa piattaforma utilizzata per la consultazione pubblica dell'Agenda Digitale, Ideascale. All'indirizzo start-up.ideascale.com tutti gli startupper possono ancora postare la propria top 5 dei problemi che devono affrontare per mantenere la loro attività, con lo scopo di arrivare ad un consenso e di far sentire la propria voce senza mediatori.

All'interno della community Italian Startup Scene su Facebook si era parlato per diversi mesi dei problemi degli startupper, ma è stato estremamente interessante concentrare gli sforzi all'interno del workshop e cercare di capire davvero cosa sta bloccando l'ecosistema italiano. Nella Top 5 dei problemi sono rientrati temi importanti come la difficoltà di avere accesso al capitale di rischio, ma soprattutto di accedere ai fondi pubblici per le startup, spesso troppo complessi, eterogenei e con restrizioni in termini di spesa. Ma il tema degli investimenti è arrivato all'ultimo posto, con mia grande sorpresa. È emersa anche la necessità di fare formazione ai giovani sul mondo startup, ancora perlopiù sconosciuto, e di aumentare la comunicazione mediale di storie di successo, per fornire dei role models, cercando però di evitare l'effetto-moda che rischia di far passare messaggi fuorvianti a chi vuole avvicinarsi a questa realtà.

La cosa però sicuramente più interessante è stata che i primi tre problemi identificati possono essere riassunti con una semplice frase: in Italia non esiste la forma societaria adeguata per lo sviluppo di una startup, che viene penalizzata da un eccesso di burocrazia e pressioni fiscali nei primi anni di vita. Ci sono i costi di apertura di una Srl, che ora sono stati ridotti grazie all'introduzione della Ssrl, di cui l'età massima (precedentemente 35 anni) è stata estesa dal recentissimo Decreto Sviluppo. Ma soprattutto c'è la struttura stessa delle Srl, che non permette un option pool per incoraggiare i soci lavoratori, tipologie diverse di quote societarie (stile Inc con common vs preferred stock options) o la possibilità di avere convertible notes come forme di investimento, per citarne alcune. E ci sono le trafile e i costi che qualunque operazione societaria comporta, tutti gli inghippi burocratici che occupano il tempo prezioso degli startupper che già devono coprire diversi ruoli e responsabilità all'interno della piccola azienda. Infine, ci sono le inutili tassazioni sui redditi anche se vengono reinvestiti, i contributi INPS, il costo troppo alto del lavoro per chi come uno startupper ha bisogno di capitale umano e si ritrova con poche risorse finanziarie.

Dunque troppi gli ostacoli pratici che gli startupper devono affrontare durante i primi anni della loro attività, quando devono concentrare le proprie energie nel creare un prodotto valido e competitivo su un mercato internazionale, e cercare investimenti per rimanere operativi. E invece passano troppo tempo a gestire procedure complesse e spendono soldi che non hanno per pagare contributi fiscali inadeguati. Quali sono dunque le soluzioni proposte? Modellare la forma societaria italiana su quelle estere che funzionano bene come la Corporation degli USA o la Limited degli UK, spesso scelte anche da molti startupper italiani per la loro convenienza e semplicità (una soluzione proposta era quella di limitare i costi della Sda).

Ridurre le pratiche burocratiche e i loro costi, e permettere soprattutto di gestirle online (riducendo trasmissioni di cartaceo, chiamate, necessità della presenza fisica, etc.). Eliminare i contributi fiscali superflui che uccidono le startup, come i minimali INPS e la tassazione sul reddito se viene reinvestito nella società. Cose che potrebbero semplificare lo sviluppo di un ecosistema startup italiano anche prima dello spostamento di ingenti capitali o la creazione di programmi di ampio respiro stile Startup Chile, che comunque dovrebbero appoggiarsi su una struttura burocratica e fiscale snella che rispecchia quella che deve avere al suo interno una startup per poter crescere.

È vero che alcune di queste soluzioni comportano cambiamenti consistenti per un sistema con dinamiche secolari complesse e difficili da sradicare come quello italiano. Ma sono necessarie se vogliamo puntare sulle startup per aiutare a far ripartire questo Paese in caduta libera. Noi abbiamo comunicato questi problemi e queste idee, emerse dal workshop del Miur, durante l'Open Day della task force, e abbiamo trovato riscontro nelle proposte di molti altri startupper. Ora invitiamo tutti a continuare a contribuire alla discussione su Ideascale. E aspettiamo di vedere cosa succede. Qualche risultato, speriamo, non tarderà ad arrivare. Più di così, al momento, proprio non possiamo fare.

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