Edoardo Petti

Esiste un settore decisivo per il riscatto economico e sociale del nostro paese e per la formazione della sua classe dirigente, che sembra sfuggire alle regole della disciplina di bilancio e dei tagli drastici dei finanziamenti statali: si tratta dell'università italiana. Per farla funzionare servirebbe una vera meritocrazia.

Spending review. Una parola chiave nell'Italia governata dai professori. La cui iniziativa, almeno nelle intenzioni, trova la sua pietra angolare nell'obiettivo storico di una riduzione profonda e strutturale della spesa pubblica. Comparti da sempre soggetti a politiche irresponsabili e clientelari, orientate alla costruzione e al consolidamento del consenso, appaiono destinati a una rigorosa revisione dei conti. Tuttavia esiste un settore, cruciale e decisivo per il riscatto economico e sociale del nostro paese e per la formazione della sua classe dirigente, che sembra sfuggire alle regole della disciplina di bilancio e dei tagli drastici dei finanziamenti statali.

Si tratta della realtà universitaria, un mondo vasto e complesso, articolato in una rete di istituzioni e strutture eterogenee, pubbliche e private. Legati da un rapporto sinergia sul territorio e talvolta centri di eccellenza, o finalizzati a rispondere alle aspirazioni di politici o gruppi di potere locale, gli atenei italiani costituiscono un capitolo rilevante nel bilancio pubblico.

Ma i consistenti finanziamenti che lo Stato destina al funzionamento dell'universo accademico e le regole che governano il loro utilizzo contribuiscono a valorizzare la qualità dell'insegnamento e della ricerca italiani? La dimensione e l'impiego dei trasferimenti finanziari sono adeguati al livello raggiunto dall'offerta formativa dei nostri atenei? Il nostro quotidiano ha preso spunto da tali interrogativi per promuovere una ricerca* sul sistema universitario nazionale, abbracciando in una prospettiva temporale problematiche come la diffusione degli atenei nelle diverse regioni, le statistiche sulla popolazione studentesca, il numero del personale docente e dei ricercatori, l'ammontare degli investimenti e della spesa per le attività educative e di ricerca, il costo del loro funzionamento per i contribuenti.

I risultati dell'analisi delineano un panorama che presenta elementi di dinamismo, in primo luogo la spinta alla fondazione di nuovi atenei, ben 14 negli ultimi 25 anni, con una forte impennata nel 1998. Altro fattore significativo emerso nell'indagine è l'andamento altalenante degli stanziamenti pubblici a favore delle università: se dal 2008 al 2010 il complesso dei finanziamenti statali ha registrato una riduzione netta di 800 milioni di euro, negli ultimi tre anni la curva ha segnato una sensibile inversione di rotta, con un incremento che sfiora i 300 milioni. In aumento anche il livello di investimenti destinati dagli atenei alla ricerca scientifica. Appaiono discordanti invece le rilevazioni relative al numero dei professori, in diminuzione dal 2005 al 2009, e quello dei ricercatori, in crescita nello stesso periodo.

Ma il dato che accomuna tutte le statistiche esaminate è di natura politica. Il problema che penalizza la realtà accademica italiana e ne impedisce lo slancio in una dimensione globale non è tanto nell'entità delle risorse pubbliche stanziate. La questione tuttora aperta è rappresentata dall'uso e destinazione di quei fondi, da regole e meccanismi che tendono a uniformare e appiattire anziché premiare sul piano economico le eccellenze.

Lo sbocco inevitabile di tale arretratezza strutturale è visibile nelle graduatorie delle migliori università del mondo che ogni anno vengono elaborate da centri di ricerca e riviste specializzate. Nelle prime cento posizioni della classifica redatta per il 2012 dalla testata Times Higher Education, non compare nessuna istituzione italiana. E nella graduatoria stilata dal Qs World University Ranking, il primo ateneo del nostro paese è l'Università di Bologna al 183° posto, mentre La Sapienza di Roma si colloca al 210° gradino. Allo scarso rilievo dei nostri centri di formazione sul piano internazionale bisogna poi aggiungere il numero molto basso di laureati sul complesso degli studenti iscritti. Il rapporto medio è di 1 a 6.

È partendo dalla consapevolezza di tali ritardi che può prendere corpo un'idea di spending review mirata e selettiva, in grado di tenere conto dell'autonomia finanziaria dei singoli atenei, del governo virtuoso delle risorse, dei risultati nel campo della ricerca e dell'innovazione. A illustrarne contenuti e strategie è Eugenio Mazzarella, professore di Filosofia teoretica all'Università di Napoli Federico II, parlamentare del Partito democratico e componente della Commissione Cultura della Camera dei deputati. Persuaso che i mali delle università italiane derivino da una «mescolanza di iper-normazione e sotto-finanziamento, che ferisce alla radice il principio di autonomia formativa», il filosofo chiede di «depurare dal tessuto accademico le superfetazioni di sedi e corsi pubblici sorti senza mezzi adeguati, e le realtà private consentite senza un'autentica valutazione della loro qualità». Sono queste le «aree su cui si potrebbe e dovrebbe intervenire con una spending review più culturale, scientifica, organizzativa che finanziaria». Iniziativa che impone di «rivisitare l'articolazione territoriale delle sedi accademiche, e di creare un parametro di accreditamento scientifico-didattico in grado di espungere dal sistema zone franche di bassa qualità, spingendole a calibrarsi su livelli più alti». Operazione ben diversa, rimarca Mazzarella, dai ricorrenti tagli lineari, «che azzoppano ciò che funziona senza elidere in radice ciò che non regge».

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