ESPERIENZE 8:

Ricevo e pubblico volentieri il contributo che mi invia Giancarlo Manfredi, volontario della Protezione Civile, sulla propria esperienza nelle terre emiliane del terremoto. Del resto, da anni si parla molto e si pratica meno l'innovazione dal basso: la possibilità che singoli cittadini presentino idee utili a migliorare le cose. E questo mi sembra un caso del genere.
Già che ci siamo: vi ricordo che è ancora attivo il numero 45500 per mandare due euro di aiuto con un sms da cellulare. Dai, fatelo, già che siete seduti belli comodi davanti a questo schermo...
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Sostiene Pirandello che in ciascuno di noi si ritrovano a convivere differenti personaggi; verissimo, solo che ci vorrebbe un segno distintivo, un po' come nei film western, un cappello bianco per distinguere i buoni e uno nero per i cattivi.
Per quanto mi riguarda ogni tanto indosso il berrettino blu di volontario della Protezione Civile e questo, nel migliore dei casi, fa di me un (ingenuo) idealista con il sogno di un futuro migliore dove le persone e le comunità si prendano finalmente cura le une delle altre.
Dall'ultima "missione", però, sono rientrato piuttosto deluso e con la sensazione di essere stato niente affatto utile e forse un po' strumentalizzato.

I giornali hanno parlato di colonne di soccorritori inviate con una certa enfasi, ma in evidente ritardo, di contrasti tra i coordinatori dei diversi enti coinvolti, di campi senza servizi igienici. Per quanto mi riguarda, ho visto piantare (di fronte ai fotografi) bandiere "foreste" in terre disastrate, regioni che litigavano con le province che litigavano con i comuni che litigavano con..., campi con bellissime tende allineate, ma neanche un bagno chimico, soccorritori affranti dalla calura padana ristorati dai terremotati prima di essere cortesemente mandati "a cagher".
Fermo restando che la Protezione Civile è un sistema integrato del quale il volontariato è solo una delle componenti, e pur testimoniando l'opera meritevole di tante persone, credo che le cose siano andate come riportato dai quotidiani.

Io posso aggiungere il ricordo di una notte intera passata a guidare alla luce dei lampeggianti, di una bassa padana ancora accampata (a oltre una settimana dal sisma) nelle tende e nelle auto di fronte a case (e ville e fattorie e chiese) disastrate, di una popolazione presa alla sprovvista e resa insicura dal susseguirsi di scosse malevole.
E il caldo e la voglia di un caffè, l'indecisione su cosa dover fare, il desiderio di aiutare, i racconti dei vecchi sulle panchine e le voci su misteriose prospezioni petrolifere; il tutto concluso in un rientro, anticipato quanto inatteso.

Vorrei essere un bravo "disaster manager" (e non lo sono) eppure, con tutti i miei limiti, mi appare evidente che nell'occasione sono venuti meno alcuni dei principi basilari delle buone pratiche di intervento nelle calamità.
Come ad esempio inviare, fin dal primo momento, un team (immaginate un camper attrezzato con computer e apparati radio-satellitari) per la prima valutazione sul campo, incaricato di coordinare una risposta congiunta con le altre forze impegnate, di prendere contatto con le autorità locali e di determinare, nel rispetto del prinicipio di sussidiarietà, che cosa serve realmente alla mitigazione della crisi.
Questo avrebbe permesso di predisporre per tempo i trasporti pesanti, pianificando con precisione le strutture che si dovevano realizzare, e di identificare tra le varie associazioni di volontariato solamente il personale qualificato e necessario agli specifici compiti previsti (dai cuochi agli elettricisti, dagli psicologi agli animatori) per poi farlo viaggiare, tramite autobus di linea (risparmiando così sui costi e sulla fatica delle persone), in tempi più rapidi.

Infine, non sarebbe stata cattiva idea far precedere l'arrivo "dei nostri", da una task force con il compito di predisporre la logistica (anche i volontari mangiano, dormono e fanno pipì)  e un posto di comando, controllo e coordinamento.
Voglio sperare, anzi credere, che molti dei problemi qui raccontati siano stati in seguito risolti; resta comunque valido il messaggio su quello che deve realmente guidare la fase successiva ai primi soccorsi: il rispetto per le popolazioni colpite, la solidarietà e la consapevolezza di essere ospiti venuti a dare una mano e non a imporre soluzioni non condivise o, peggio, nuovi stili di vita.

Domandiamoci poi se è possibile giustificare ritardi, incomprensioni e inefficienze solo con la congiuntura economica o con le recenti modifiche al quadro normativo della Protezione Civile, laddove imposte tramite un decreto legge non pienamente condiviso da molte delle componenti sociali coinvolte.
In realtà da alcuni mesi stiamo assistendo a un vuoto di potere che determina a sua volta una situazione di competizione dei diversi attori istituzionali per il controllo delle (sempre minori) risorse disponibili: ritengo che quest'ultima considerazione spieghi meglio di molte altre ipotesi ciò che sta realmente accadendo.
Concludo dicendo che se ancora oggi la fase d'emergenza in Emilia non può ritenersi terminata, temo purtroppo non sarà certo l'ultima calamità che ci troveremo ad affrontare ("Così va la vita", diceva il personaggio di un romanzo dello scrittore Kurt Vonnegut). Tuttavia, fino a che non ritroveremo il giusto spirito di una Protezione Civile condivisa e ben coordinata e di una cultura della sicurezza diffusa e applicata, potremo solo limitarci a improvvisare.

"Vivere nel rischio significa saltare da uno strapiombo e costruirsi le ali mentre si precipita." (Ray Douglas Bradbury)

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