Anche in Italia le startup sociali si trovano di fronte sfide ed opportunità che bisogna imparare a conoscere. Ce le illustrano Paolo Venturi, direttore di AICCON, e Flaviano Zandonai, segretario generale di Iris Network.
Per capire se l'aggettivo "social" accostato a "startup" rappresenti una qualifica sostanziale dell'imprenditoria innovativa - e non solo un espediente terminologico alla moda - è utile guardare a quanto fin qui realizzato nel campo dell'impresa sociale. In più, ci sono anche le tendenze che caratterizzano un comparto il cui driver di sviluppo è rappresentato dalla generazione di un esplicito (e rendicontabile) impatto sociale a favore di persone e di comunità locali.
La seconda edizione del Rapporto sull'impresa sociale di Iris Network, appena pubblicata per le edizioni Altreconomia, è una fonte a cui attingere per aggiornare la geografia di queste imprese: consistenza numerica, modelli giuridico organizzativi, settori di attività e, non ultimo, il loro modello di business. Si tratta, nel dettaglio, di un'indagine campionaria condotta in collaborazione con Unioncamere.
Il core del settore è costituito da circa 12500 unità: poche imprese sociali costituite ai sensi della normativa (365) e un più consistente zoccolo duro di cooperative sociali, il modello storicizzato di impresa sociale che ha fatto scuola a livello europeo. In posizione periferica, ma in progressivo avvicinamento, si delineano due bacini di potenziale imprenditorialità sociale. Il primo nel campo non profit: 22mila circa tra associazioni, organizzazioni di volontariato, fondazioni iscritte ai registri REA delle Camere di Commercio, che quindi hanno assunto una dimensione di carattere produttivo.
Il secondo è forte di oltre 88mila imprese for profit che operano nei settori ad elevato impatto sociale (servizi sociali, produzione culturale, educazione, ambiente, ecc.) riconosciuti dalla normativa. Naturalmente, ciò non si significa che queste ultime siano da considerare di default imprese sociali, ma è una misura utile a delineare il nuovo fronte della produzione di socialità tra profit e non profit. Ovvero, quel confine dove la partita, come affermano Michael Porter e Mark Kramer, si gioca sulla creazione di "valore condiviso".
Ma come si attrezzano le imprese sociali per sostenere questa sfida? E quali insegnamenti si possono trarre per le odierne startup da una storia che è ormai pluridecennale? Rileggendo in quest'ottica il Rapporto, emergono alcuni importanti apprendimenti. Il primo riguarda l'enfasi sulla community come finalità e insieme fattore produttivo. Il coinvolgimento di una molteplicità di attori (in primis gli users) rappresenta un obiettivo delle vecchie e nuove imprese sociali, con le prime che segnano il passo a causa di un eccessivo isomorfismo rispetto a una domanda espressa non direttamente dai cittadini, ma dalle tecnostrutture della Pubblica Amministrazione.
L'innovazione delle startup sociali di nuova generazione può consistere, da questo punto di vista, nella capacità di mettere in connessione comunità digitali e naturali, ad esempio attraverso l'utilizzo di proximity app in grado di strutturare network sociali localizzati. Un secondo fattore di riguarda non tanto i nodi quanto forma e contenuti delle relazioni: se è vero che la normativa è molto blanda rispetto ai requisiti di coinvolgimento, le prassi più innovative di impresa sociale lavorano alla costruzione e manutenzione di veri e propri distretti cooperativi. Cioè, dove si condividono con gli stakeholders mezzi e fini dell'azione imprenditoriale.
In questo senso le startup sociali possono contribuire a "socializzare" la dimensione collettiva della produzione (equipe, team, cantieri), della gestione (declinando in chiave wiki la progettazione e le programmazione strategica) e, non ultimo, del governo di imprese democratiche e partecipative (una sorta di "e-governance" dell'impresa e del territorio).
Terzo elemento riguarda la sostenibilità del progetto imprenditoriale rispetto al quale le imprese sociali "vecchio stile" sembrano aver rotto gli indugi e, seppur non ancora in modo generalizzato, integrano le risorse autogenerate (finanziamento dei soci, utili reinvestiti) con prodotti finanziari dedicati in grado di consentire investimenti capaci di far fare il salto di qualità. Ad esempio, per scalare l'innovazione su grandi numeri. Anche su questo fronte il contributo di startup sociali può risultare decisivo.
A monte del processo elaborando sistemi di scouting del territorio in grado di restituire un quadro aggiornato non solo dei problemi, ma anche delle risorse mobilitabili (e spesso non riconosciute come tali). A valle esiste invece uno spazio ancora molto consistente per elaborare strumenti di rendicontazione d'impatto in grado di raggiungere in modo efficace l'ampia platea di interlocutori dell'imprenditoria sociale. Last but not least il capitale umano. Le imprese sociali sono, anche in termini formali, imprese di persone.
Ma al di là del dato giuridico vi è in queste esperienze un'enfasi particolare su pratiche di management in grado di "retribuire" sistemi motivazionali complessi, dove la leva economica deve essere integrata in termini sostanziali da sofisticati incentivi di natura extraeconomica. Su questi e altri punti si può costruire un processo di sviluppo (e relative politiche) in grado di combinare i dati di esperienza e i contributi di innovazione generati dai diversi cicli di vita dell'imprenditoria sociale italiana.
Bologna, 21 giugno 2012
PAOLO VENTURI E FLAVIANO ZANDONAI