Adista
È la nuova formula magica con cui far fronte alla crisi ambientale: green economy, "economia verde", la migliore promessa di un rigoglioso e ridente futuro. Ed è, anche, il concetto chiave del documento Onu, dal titolo "Il futuro che vogliamo", elaborato in vista della Conferenza delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Sostenibile, nota come Rio+20, in programma a Rio de Janeiro dal 20 al 22 giugno, vent'anni dopo lo storico Vertice della Terra. Ma quanto "verde" ci sia nella proposta della green economy bastano ad indicarlo gli immensi interessi in gioco: se i grandi capitali si sono decisi ad ammettere l'esistenza di quello che per lungo tempo hanno preferito celare, cioè di una crisi climatica e ambientale di proporzioni colossali, non è perché sono rinsaviti, ma perché - come si legge in un documento dal titolo "El trasfondo de la economía verde" diffuso il primo giugno da alcune organizzazioni ambientaliste - sono riusciti finalmente a intravedere le immense opportunità di guadagno legate alle alterazioni del clima e degli ecosistemi. «Credo ardentemente - ha affermato non per nulla il primo ministro David Cameron - che, se riformulassimo gli argomenti a favore di un intervento relativo al cambiamento climatico in termini non di minacce e di castighi ma di opportunità di profitto, potremmo registrare un impatto di molto superiore».
È esattamente a questo nuovo giro di affari - pari, secondo le stime più prudenti, almeno al doppio del Pil mondiale - che è stato assegnato il nome di "economia verde", riconducibile non solo alle attività legate alle energie rinnovabili, ma anche alla commercializzazione di tutte le risorse naturali e persino dei servizi prestati dai diversi ecosistemi planetari: il suo scopo è, insomma, secondo le parole dell'attivista boliviano Pablo Solón, quello di trasformare in merce «non soltanto il legname dei boschi ma anche la capacità che questi boschi hanno di assorbire anidride carbonica». Detto altrimenti: assegnare un valore finanziario alla biodiversità, quantificando in termini economici gli stessi complessi processi ecologici. Basti pensare al mercato delle emissioni di gas climalteranti, sulla base del concetto di credito di carbonio, equivalente a una tonnellata di anidride carbonica: il Paese ricco che ha oltrepassato il limite dell'inquinamento consentito acquista il credito dal Paese povero che ancora non ha raggiunto i suoi limiti di emissione di CO2, ricevendo in tal modo l'autorizzazione ad inquinare.
Così, «mentre il mondo sperimenta la crisi economica, finanziaria, ambientale, energetica, alimentare e climatica, tutto come riflesso della crisi strutturale del modello capitalista», i detentori del potere politico, militare ed economico-finanziario - afferma il teologo brasiliano Frei Rodrigo Péret - prevedono per il capitalismo «una nuova era», «canalizzando investimenti e innovazione tecnologica attraverso l'appropriazione dei sistemi fisici e biologici che sostengono la vita».
Ed è su questa minaccia mortale per il pianeta che richiamano l'attenzione le innumerevoli realtà (tra cui anche un'inedita coalizione interreligiosa che prende il nome di "Religioni per i Diritti") che daranno vita, dal 18 al 23 giugno, al Vertice dei Popoli parallelo alla Conferenza delle Nazioni Unite, opponendo al bluff dell'economia verde la logica della giustizia ambientale e proponendo una transizione dall'attuale antropocentrismo a una civiltà biocentrica, fondata sulla difesa dei beni comuni dell'umanità e sul riconoscimento dei diritti della Natura, sul senso di appartenenza, come recita la "Carta della Terra" nel suo preambolo, «ad un'unica famiglia umana e ad una comunità terrena con un destino comune».
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