Uno dei dibattiti che sempre più spesso appaiono sui media nazionali è quello relativo alla questione del cosa serva per far crescere sana e forte, anche nel nostro Paese, la pianta della innovazione. È un dibattito che si trascina già da diverso tempo e che potrebbe, in mancanza di atti concreti, annoiare coloro che fanno realmente imprenditoria innovativa in Italia, la cui soglia di sopportazione alle chiacchiere è oramai ridotta al minimo. Il rischio che si corre, allora, è quello di allontanare da un dibattito tanto cruciale per il nostro futuro proprio coloro che più di tutti potrebbero risultare decisivi per dare una svolta finalmente concreta ed efficiente alle politiche di innovazione del paese.
Considerare come un rischio la perdita di coinvolgimento da parte degli attori più qualificati è corretto solo se si accetta come assunto un aspetto che invece è regolarmente trascurato dal dibattito in corso, se non del tutto assente: quello per cui sono le persone a fare la differenza.
Non i processi, non le certificazioni, non le relazioni al contorno, ma le singole persone. Anche ammesso di trovare quali siano - per usare la metafora di un interessante recente post di Gianluca Dettori - gli ingredienti e la ricetta dell'innovazione, senza degli chef che sappiano realmente cucinare e gestire il ristorante, le probabilità di avere una transizione verso un nuovo ecosistema imprenditoriale innovativo sono scarse, probabilmente nulle.
Fuor di metafora, se a guidare anche i migliori processi innovativi continueremo a mettere degli incapaci, non avremo nessuna chance.
Sembra la scoperta dell'acqua calda, ma non lo è affatto. Viviamo in un paese dove un adagio piuttosto ricorrente è "tutti sono utili, nessuno è indispensabile". Cosa che risulta palesemente errata in una grande organizzazione (proviamo, ad esempio, a considerare cosa abbia rappresentato il ritorno di Steve Jobs per Apple mettendolo in relazione con praticamente qualsiasi altra scelta), ma che per una startup è assolutamente demenziale. E il processo di rinnovamento del paese è, nei fatti, una startup.
Il semplice fatto che siano le persone a fare la differenza è un dato certamente sconosciuto sia al burocrate, la cui visione del mondo è un continuo interlacciarsi di processi, norme, consuetudini procedurali, che alla classe dirigente di un paese che ha sempre fatto della lotta alla concorrenza un punto d'onore, preferendo di gran lunga il cristallizzarsi di un forte business delle relazioni al duro confronto col mercato, ma dovrebbe essere piuttosto noto a tutti coloro che invece tale mercato non solo lo hanno affrontato, ma lo hanno fatto anche con notevole successo.
Queste persone, infatti, hanno oramai da tempo imparato la formula che i fondi di venture capital ripetono come un mantra ogni volta che si chiede loro quali siano i tre elementi fondamentali alla base delle decisioni di investimento: team, team, team. Ancora una volta: vanno bene i processi, vanno bene i piani e le analisi, va bene tutto, ma sono le persone che fanno la differenza. Senza di queste, è difficile raggiungere gli obiettivi preposti.
Il dibattito sul modello di sviluppo, sull'ecosistema, quello sulla metafora della rainforest è certamente interessante e ha anche un suo valore di diffusione culturale (finalmente si parla di startup ed innovazione anche in Italia!), ma se non viene evidenziato il ruolo deciviso che le persone hanno in tutto questo, si corre il rischio di far passare ancora il messaggio che esistano delle ricette miracolose per trasformare il paese e che un approccio puramente procedurale sia sufficiente ad innescare il processo evolutivo del tessuto imprenditoriale e sociale italiano.
Se dovesse continuare a passare questa idea di fondo, l'implementazione del modello scelto sarà, come al solito, guidata da volti magari nuovi, ma dai curriculum ben noti. Quelli di "tecnici" con un brillante passato in università, in organizzazioni pubbliche nazionali o internazionali, di sindacalisti, di manager pubblici, di dirigenti di partito. Insomma, pur conscio dei torti che posso fare con questa semplificazione, avremo sempre a che fare con tutta una serie di personaggi la cui conoscenza dei problemi è, nella migliore delle ipotesi, accademica, la cui prospettiva di carriera è principalmente di natura politica, la cui forma mentis è essenzialmente burocratica e il cui network di relazioni è fuori dal mercato.
Persone non abituate a prendere decisioni se non con il supporto di commissioni e gruppi di studio, di cui è troppo facile prevedere l'incapacità di tagliare il nodo gordiano che lega i finanziamenti pubblici che inevitabilmente verranno ad essere assegnati, a tutta una corte dei miracoli di iniziative sconclusionate, il cui unico scopo è quasi sempre esclusivamente elettorale e/o quello di mantenere in vita un business esclusivamente relazionale che invece andrebbe scardinato quanto prima.
Il recente caso delle nomine alla presidenza di AGCOM è, da questo punto di vista, esemplificativo. La candidatura di una persona estremamente competente, sia tecnicamente che dal punto di vista della conoscenza dei processi di mercato, come Stefano Quintarelli, non viene messa in discussione sul piano della sua capacità di gestire un ente con criteri di efficienza di spesa e meritocrazia, o della sua capacità di dare all'AGCOM una visione finalmente moderna in grado di controllare e stimolare l'innovazione nel settore delle comunicazioni del Paese, ma sulla base della sua inesperienza nei processi burocratici, nell'intreccio dei veti e dei vincoli di natura procedurale. In tutti quegli elementi, cioè, che dovrebbero al massimo costituire l'infrastruttura di supporto normativo ad una direzione strategica e non la chiave con cui selezionare chi tale direzione strategica è chiamato a dare.
AUGUSTO COPPOLA