In questo blog si è già trattato più volte degli effetti negativi che le leggi sulla proprietà intellettuale possono avere sulla qualità e la diffusione dell'innovazione tecnologica, ma l'argomento è fondamentale, per cui merita ancora qualche parola.
L'idea di base che giustifica l'esistenza di queste leggi è che senza grossi incentivi quasi nessuno sarebbe disposto a investire risorse nella ricerca scientifica e tecnologica. La conclusione di questo ragionamento è creare monopoli legali temporanei che vadano a garantire un largo margine di profitto a chi brevetta una certa tecnologia per primo, incentivando così l'innovazione. Ma quanto ha senso questo discorso?
Da alcuni anni a questa parte, alcuni economisti hanno iniziato ad avanzare l'ipotesi che creare monopoli in quantità così ingenti e indiscriminate, anziché favorire l'innovazione tecnologica, spesso la ostacoli fortemente. Monopolio od oligopolio infatti nuocciono gravemente all'efficienza del mercato; soprattutto se consideriamo il fatto che la maggior parte delle innovazioni tecnologiche non sono grandi "break-through", ma piuttosto progressivi miglioramenti di tecnologie già esistenti. Le leggi sulla proprietà intellettuale impongono costi aggiuntivi a chiunque voglia utilizzare queste tecnologie per crearne di nuove, limitando così l'offerta innovativa - che significa, più prosaicamente, prezzi più alti per il consumatore finale.
Vediamo benissimo gli effetti di queste normative nel mercato dell'informatica: le grandi imprese (vedi Google, Apple, Microsoft, etc.) che hanno tasche profonde e se lo possono permettere, investono in enormi dipartimenti legali che si occupano esclusivamente di fare causa ad altre aziende per presunte violazioni di brevetti o di difendere la propria azienda dalle cause che provengono da aziende rivali. Una quantità considerevole di risorse, anziché venire investita in maniera produttiva, serve solo a difendere il proprio monopolio da quelli altrui. Il danno maggiore, tuttavia, è quello che non si vede: mentre i grandi possono permettersi avvocati preparatissimi e uffici legali ben organizzati, i piccoli concorrenti e le start-up non hanno il denaro per farlo e risultano enormemente penalizzati: quindi il sistema legale dei brevetti va a formare effettivamente una barriera d'entrata.
Un caso ancora più lampante dell'inefficienza del sistema di brevetti attualmente in vigore sono i cosiddetti patent troll, di cui abbiamo già parlato in passato. Queste aziende sono di fatto parassiti del sistema legale, il cui scopo è entrare in possesso del maggior numero possibile di brevetti, in modo da obbligare le aziende più grandi a comprare una licenza, e le più piccole a pagare delle royalty, come spiega Leonid Kravets, avvocato americano esperto di proprietà intellettuale. La cosa importante da notare, in ogni caso, è che questo fenomeno è da imputare più a com'è organizzato il sistema odierno di brevetti, piuttosto che alla presunta malvagità che il termine "troll" lascerebbe immaginare.
Rilasciare brevetti a chiunque ne chieda uno significa rendere scarsa una risorsa - la tecnologia che questi brevetti proteggono - che altrimenti non lo sarebbe, o lo sarebbe molto meno. Dunque, diventa sensato spendere denaro e risorse per proteggerli e farli fruttare, in modo moralmente più o meno legittimo, come dimostra il miliardo di dollari (circa 840 milioni di euro) che la Microsoft spenderà entro la fine dell'anno per comprare tutti i brevetti posseduti da America On-Line.
Solo un cambiamento radicale nel modo in cui i brevetti vengono rilasciati può eliminare queste condotte anticompetitive e queste altissime barriere d'entrata i cui costi sociali non sono certo giustificati dai presunti benefici che ne ricaviamo. È necessario ripensare da capo il sistema di proprietà intellettuale per creare un mercato più libero in cui venga dato maggior spazio agli innovatori, alle startup ed ai giovani imprenditori.
Giacomo Brusco