In quarant'anni danni per 147 miliardi di euro. Ne sarebbero bastati 25 per la sicurezza.
«Avvezza la popolazione di Reggio e della provincia alle scosse di tremuoti, sembra ad ognuno che avrebbe dovuto pensare ad un modo onde formare le case in guisa che le parti avessero la massima coesione e il minimo peso. Or qui si vedeva precisamente il contrario?». Sono trascorsi oltre due secoli da quel 1783 in cui la Commissione Accademica napoletana stese quel rapporto denunciando che in Calabria, nonostante tanti terremoti, si continuava a costruire senza alcun criterio. E altri due secoli erano già passati allora dalla catastrofe di Ferrara del 1570-1574 e dal progetto della prima casa antisismica disegnato da Pirro Ligorio. Eppure, gran parte delle polemiche di oggi ruota intorno alla scelta di non cancellare la cerimonia del 2 Giugno, scelta difesa da Giorgio Napolitano con una motivazione sensata: «Non possiamo piangerci addosso, dobbiamo dare messaggi di fiducia». Ogni dissenso, si capisce, è legittimo. Ma l'esaltazione online di Arnaldo Forlani, benedetto per avere lui sì sospeso la celebrazione dopo il terremoto in Friuli, è così pelosa e strumentale da gettare un'ombra perfino sulle migliori buone intenzioni. E rischia di fare chiasso mettendo in secondo piano il tema vero: non ne possiamo più di piangere i lutti causati da «fatalità» talvolta imprevedibili (non sempre: talvolta), ma i cui danni vengono moltiplicati da un vuoto inaccettabile nella cultura della prevenzione. Che dei ladri possano rubare un chilometro di fili di rame isolando l'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia nei giorni della crisi sismica in Emilia manda il sangue alla testa. Ma lì siamo nell'ambito della criminalità più stolta.
Molto più gravi sono le responsabilità di chi negli anni si è opposto a ogni irrigidimento (norme più facili ma rigide) sulla sicurezza. Nella convinzione che non valesse la pena di infastidire i cittadini e le aziende, obbligati a spendere di più senza essere mai stati informati dei rischi che correvano.
Un errore suicida. Per decenni, finché la natura non tornava a ricordare con nuove distruzioni come le catastrofi del passato possano ripetersi, la grande maggioranza degli amministratori nazionali e locali ha preferito costantemente derubricare i rischi sismici, geologici, ambientali di questo e quel territorio piuttosto che affrontare la realtà. C'è un saggio («La classificazione e la normativa sismica italiana dal 1909 al 1984» di autori vari) che spiega tutto: la mappa delle aree pericolose è stata composta di scossa in scossa. Con l'aggiunta via via di Messina e Reggio nel 1908, di Avezzano e della Marsica nel 1915, del Riminese nel 1916, della Val Tiberina nel 1917, del Mugello nel 1919, della Garfagnana nel 1920 e avanti così... Come se lo Stato si rassegnasse a riconoscere man mano, quando era ormai impossibile continuare a negarlo, ciò che non solo gli studiosi ma i vecchi abitanti dei luoghi sapevano. E questo processo, con il rattoppo continuo delle mappe delle zone a rischio, è proseguito fino ai nostri giorni. Senza che mai venisse definita una mappa finale che non fosse una pura accumulazione di variegate mappe precedenti. È una seccatura, finché non crollano il campanile, le case e i capannoni, accettare la definizione di area sismica più o meno esposta al pericolo.
È più facile scacciare il pensiero confidando nella buona sorte. Valga per tutti il manifesto affisso nel 2010 a Ischia, dove chi ricorda il terremoto di Casamicciola del 1883 è considerato nemico del turismo: «Sulla scheda elettorale scrivi: voto abusivo». E come dimenticare l'ospedale di Agrigento costruito con materiali di scarsa qualità senza rispettare le regole? La scuola di San Giuliano di Puglia o la Casa dello studente dell'Aquila collassate perché erano state tirate su in modo scriteriato? La polemica contro Bassolino del sindaco di San Sebastiano al Vesuvio furente perché il «Piano casa» della destra con le sue abolizioni di lacci e lacciuoli non era esteso alla «zona rossa» sotto il vulcano per la quale invocava «almeno di realizzare i sottotetti a copertura degli immobili esistenti»? O ancora quel comma dello stesso «Piano casa» che prevedeva, prima di essere abolito la mattina stessa del terremoto abruzzese, «semplificazioni in materia antisismica » che fissavano solo «modalità di controllo successivo anche come metodi a campione»? È come se decine di disastri non ci avessero insegnato niente. Spiega lo studio «Societal landslide and flood risk in Italy» pubblicato nel 2010 sul «Natural Hazard and Earth System Sciences» da Salvati, Bianchi, Rossi e Guzzetti e ripreso da Silvio Casucci e Paolo Liberatore del «Cles», che «nel corso degli ultimi 60 anni circa (1950-2008) sono stati rilevati in Italia rispettivamente 967 eventi franosi e 613 eventi alluvionali » con danni alla popolazione. In media, ogni frana «ha causato oltre 4 fatalities (morti e dispersi), mentre un'alluvione circa 2». Facciamo due conti? Oltre cinquemila morti. Più quelli causati dai terremoti e da altri disastri naturali che la studiosa Emanuela Guidoboni (cui è stato chiesto finalmente dalle autorità fino a ieri sorde come mai avesse scritto l'anno scorso il libro «Terremoti a Ferrara e nel suo territorio: un rischio sottovalutato ») ha calcolato in almeno 200 mila dall'unità d'Italia ad oggi.
Quanto ai danni patrimoniali, prendiamo i dati (per qualcuno sottostimati) di un rapporto della Protezione civile del settembre 2010: «I terremoti che hanno colpito la Penisola hanno causato danni economici consistenti, valutati per gli ultimi quaranta anni in circa 135 miliardi di euro (a prezzi 2005), che sono stati impiegati per il ripristino e la ricostruzione post-evento. A ciò si devono aggiungere le conseguenze non traducibili in valore economico sul patrimonio storico, artistico, monumentale. (...) Attualizzando tale valore, si ottiene un valore orientativo complessivo dei danni causati da eventi sismici in Italia pari a circa 147 miliardi e, di conseguenza, un valore medio annuo pari a 3.672 milioni di euro ». Una montagna di soldi. Soprattutto se messi a confronto con quanto stimò un giorno Guido Bertolaso: «Per mettere in sicurezza tutto il nostro Paese occorrerebbero tra i 20 e i 25 miliardi di euro». Quante vite, quanti strazi, quante rovine ci saremmo risparmiati affrontando la vera grande emergenza di questo Paese, e cioè uscire dalla cultura dell'emergenza? Certo, la mazzata di questi giorni colpisce duro un Paese già in difficoltà. La storia del Friuli, che seppe reagire al terremoto del 1976 e non si lasciò demoralizzare e ricostruì le fabbriche e insieme, mattone su mattone, il duomo di Venzone e tutti i centri storici devastati, è però di luminoso incoraggiamento. I friulani non si limitarono a rimettere a posto le pietre delle chiese e far ripartire i macchinari delle fabbriche. Approfittarono della catastrofe per darsi nuove regole nell'edilizia, far rivivere i centri storici, rilanciare le loro imprese, allargare la loro economia. E chissà che un giorno non possiamo ricordare il dolore di queste settimane come punto di partenza di una rinascita.
Gian Antonio Stella