Paola Bisconti

Ne avevamo già parlato ma non è stato sufficiente denunciare quello che da sempre accade all'interno dei penitenziari in Italia. Questa volta però c'è la possibilità reale che qualcosa possa cambiare grazie all'intervento attivo dell'Associazione Antigone, che offre l'opportunità di aderire a una campagna politica e culturale attraverso l'appello "Chiamamola tortura", che chiede che sia introdotto il reato nel codice penale italiano. Quanto è avvenuto il 21 maggio ad Asti è decisamente inaccettabile: Riccardo Crucioli, giudice di Asti, deve giudicare le violenze compiute da 5 agenti di polizia nei confronti di due detenuti. Gli abusi sono dettagliatamente elencati dal giudice che durante l'udienza utilizza esplicitamente il termine "tortura" ma i poliziotti colpevoli di reato vengono assolti perché il codice penale non prevede il reato. La notizia ha suscitato indignazione in particolare per i parenti delle vittime che hanno subito questo genere di violenze e che non riusciranno ad avere giustizia finché il crimine non sarà riconosciuto come tale. E' indispensabile che l'appello venga accolto, anche se già il 4 aprile del 1989 Nereo Battello, senatore del PCI, depositò a Palazzo Madama il primo disegno di legge diretto a introdurre il reato, ddl che però non fu accettato, così come il 17 aprile scorso con quello di Pietro Mercenaro, senatore del PD.

Sarebbe sufficiente un'ora di lavoro per discutere e approvare la legge, ma che cosa in realtà frena la richiesta? Le preoccupazioni politiche, i timori della polizia pronta a difendere il proprio onore e l'indifferenza del popolo, che hanno così trascurato una lacuna imperdonabile nel nostro codice penale.

Eppure la storia della tortura in Italia è antica e i numerosi episodi dimostrano l'utilizzo di tecniche sadiche, sistematiche e ben articolate. Sono in pochi a non ricordare i fatti avvenuti nel 2001 a Genova, ricostruiti dettagliatamente dal film "Diaz" e che una democrazia come quella italiana non avrebbe mai dovuto consentire. Occorre inoltre conoscere quello che accade tutti i giorni all'interno delle numerose prigioni e nei Cie, i "campi di concentramento per i colpevoli di viaggio" (Erri De Luca, su Il Manifesto del 18 maggio), dove vengono rinchiusi gli immigrati costretti a subire sistematiche torture di massa. Una pratica diffusa fra l'altro sin dai tempi degli "incriminati per banda armata" degli anni '80: chiunque fosse anche solamente sospettato di appartenere alle BR subiva un interrogatorio da parte di Nicola Ciocia, il professore De Tormentis, che abusava della propria divisa nonché del suo potere per infliggere sevizie e violenze inammissibili a chiunque fosse sottoposto alle sue domande.

Secondo il diritto internazionale, tuttavia, la tortura è un crimine contro l'umanità ma l'Italia non la ritiene un reato, compiendo in questo modo un'adempienza rispetto a quanto richiesto dalla Commissione delle Nazioni Unite. L'Italia, inoltre, dovrebbe attenersi alle norme di apertura del trattato di Lisbona della Unione Europea che proibisce categoricamente e senza eccezioni la tortura. Infine dovrebbe istituire un organismo nazionale indipendente con il compito di controllare i luoghi di detenzione, come prevede il Protocollo Opzionale alla Convenzione Onu contro la tortura.

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