Bernardo Parrella, giornalista e media-attivista con un piede in Italia e l'altro negli Stati Uniti, è l'ospite che nel prossimo webinar gratuito di VpS/Ong 2.0 introdurrà il percorso di corsi online dedicato al giornalismo partecipativo. Una lunga esperienza giornalistica e cosmopolita ha portato Parrella a eleborare un'idea molto precisa di che tipo di citizen journalism sia necessario oggi: "Abbandonate Facebook e Twitter e date vita a piccole comunità in cui la rete sia uno strumento a disposizione di tutti per creare cultura, socialità e cambiamento".

 

di Serena Carta



Bernardo, sul tuo blog ti descrivi come un "giornalista freelance con base negli Usa, traduttore e attivista, interessato alla cultura digitale".  Come sei approdato al citizen journalism? Cosa ti appassiona di più di questo modo di fare giornalismo?

 

Il citizen journalism è arrivato nella mia vita dopo anni di esperienza nel mondo dell'editoria e del giornalismo. Il passaggio alla comunicazione online è stato normale, naturale e organico, dovuto al fatto che mi sono continuamente occupato di fare informazione. Quando è arrivato il momento, ho iniziato a usare internet e i suoi strumenti; dopodiché ho cercato di allargare questa dimensione agli altri, rendendola sempre più partecipativa.

C'è poi un altro motivo, legato alla mia residenza negli Stati Uniti, dove ho avuto vari contatti con realtà già da tempo impegnate sul web. La collaborazione con Global Voices è per esempio nata ad Harward nel corso di una conferenza a cui partecipavano vari rappresentanti di GV e alcuni giornalisti italiani. In quell'occasione abbiamo deciso di dare il via alla versione italiana di GV. Inoltre, avendo io un passato di "ponte" tra l'Italia e l'estero ed avendo esperienza giornalistica, tutto si è incastrato e ho iniziato a coinvolgermi più seriamente nel progetto GV, che promuove lo sviluppo di un citizen journalism più ampio, coordinato e globale grazie alla rete.

Ovviamente io non seguo solo Global Voices, ma tanti altri progetti editoriali partecipativi. Direi però che l'esperienza di GV è la più incisiva, perché si estende su scala globale e coinvolge un maggior numero di persone. 


Qual è l'importanza e la responsabilità del giornalismo partecipativo ai giorni nostri?

 

Secondo me il citizen journalism è l'unica possibilità di fare informazione oggi. Informazione in senso dinamico e moderno come lo sono il confronto, la conversazione e il dialogo continuo; un'informazione molto diversa da quella imposta dall'alto in maniera tradizionale. E' importante il fatto che ci siano tante voci - che a volte fanno anche rumore - ma che continuano a partecipare, informare, produrre commenti, fare conversazione. Metto l'accento sulla conversazione perché è la cosa che a me e ad altri interessa di più: creare un continuo scambio di opinioni per poter partecipare e cambiare le cose dal basso, in maniera orizzontale e collettiva, senza dovere ogni volta fare conto sui cosiddetti esperti, i professionisti, quelli che ci dicono come stanno le cose. 


Secondo qualcuno internet favorisce la democrazia; secondo altri è uno strumento per controllarci di più: tu che ne pensi?

 

Premetto che io sono contro le generalizzazioni. E' importante contestualizzare sempre le cose, altrimenti parliamo di tutto e niente. Detto questo, non si può negare che i governi repressivi usino i social media in maniera più dinamica e attenta degli attivisti. E' il caso ad esempio dei paesi della Primavera araba (Tunisia, Egitto, specialmente in Siria), della Cina e talvolta anche dell'Italia. Il web è un'arma a doppio taglio. Per questo è importante non smettere di fare informazione e discutere per evidenziare i problemi e le anomalie che accadono nei nostri paesi; allo stesso modo, occorre fare contro- informazione per smascherare i comportamenti di governi e aziende che danneggiano la democrazia che si crea sul web.


 

Hai recentemente curato la traduzione in italiano del nuovo libro di 

Geert Lovink "Ossessioni collettive: critica dei social media"

(Egea/Bocconi). L'autore propone un'analisi contro-corrente 

sugli effetti che i social network hanno sulle nostre vite, ormai sature di informazioni, sottolinenando la necessità di svincolarsi dai prodotti commerciali offerti dalla rete (Facebook, Twitter...) per riappropriarsi dei propri spazi liberi sul web. Che idea ti sei fatto in proposito?

 

Bisogna innanzitutto sapere che, sin dagli anni '60 e '70,  Geert Lovink studia i movimenti sociali di protesta e occupazione ed è lui stesso autore di progetti di comunicazione indipendente. Nel suo ultimo libro, Lovink dice che nonostante la rete abbia una grande potenzialità per lo sviluppo della democrazia, più si va avanti più diventa uno strumento di oppressione, di ossessione. L'effetto più evidente è che confondiamo Facebook o Twitter con internet: questi social non centrano nulla con la rete, sono solo una parte infinitesimale di quello che capita online. Mi spiego meglio: non sono strumenti di socialità, collaborativi, di informazione, ma solo dei "playground" per giocare un po' - per non dire cose peggiori - rubano la privacy, alzano il controllo e tutto sommato non aiutano lo sviluppo della democrazia. Insomma, la rete è diventata uno strumento commercialissimo: da un po' di anni abbiamo infatti abdicato la funzione iniziale dell'essere online, che era quella della partecipazione, condivisione, del fare esperimenti alternativi per creare cambiamento. Come dice anche Lovink,  abbiamo abdicato la libertà e la partecipazione online in cambio del piacere di fare shopping online e di incontrare un po' di gente su Facebook. Tutti comportamenti che limitano le potenzialità partecipative e creative che potremmo avere online per un reale cambiamento democratico.


Quindi quale soluzione intravedi?

 

Uscire subito da Facebook, mollare queste entità commerciali e fare esperimenti, anche limitati, per creare piccole comunità. Proprio in questo risiede l'importanza di una piattaforma come Global Voices: si tratta di un esperimento  libero e aperto, di una comunità che si muove a livello globale in maniera paritaria, senza impicci commerciali, senza problemi di controllo e privacy. E' sempre più necessario impegnarsi in esperimenti iper-locali in cui la rete diventi uno strumento a disposizione di tutti per creare cultura, socialità e cambiamento.  


Sarà un movimento spontaneo o credi che ci sia bisogno di educare la gente a questo uso differente di internet?

 

C'è bisogno di dirlo! Bisogna fare un'azione pro-attiva. Con l'andazzo che c'è oggi, più si sta zitti e più l'imprenditoria, il business e i regimi autoritari acquistano spazio sul web.


Bernardo, tu vivi negli Stati Uniti da molto tempo. Quali sono le differenze tra Italia e Usa nel modo di usare il web nel mondo della comunicazione?

 

L'esperienza personale mi ha mostrato che negli States i rapporti sono diretti e semplici, anche quando si ha a che fare con gente "importante". Basta mandare un'email a un professore universitario per diventare subito attivi. Anche online c'è molta meno gerarchia, a differenza del web italiano dove ci sono tanti circoletti, realtà chiuse o la Twitter star del momento. Siamo un paese in cui se non hai almeno 1000 follower non conti nulla! Come gli Usa, anche l'Europa del nord è molto più dinamica, aperta, propositiva e produttiva.


Una "gerarchia online" che riflette in fondo l'organizzazione della società italiana?

 

Sì, con la differenza che oggi abbiamo uno strumento che per la prima volta è davvero alla portata di tutti e potrebbe aiutarci a cambiarci le cose. Invece viene abusato, smantellato, commercializzato. In Italia secondo me siamo nel periodo peggiore. Alla fine degli anni Novanta c'erano molte più prospettive, finestre aperte e scambi con i giornali e gli editori. Oggi invece quelle opportunità sono state chiuse perché giornali e politici hanno capito come imbrigliare il web. In America questo controllo è peggiore, non lo nego, ma allo stesso tempo continuano a fiorire gli spazi indipendenti. 


A proposito di Twitter star, tu avevi criticato il progetto (oggi in corso) di @tigella di andare a documentare il movimento Occupy Wall Street a Chicago. La pensi sempre allo stesso modo?

 

Assolutamente sì. Quell'idea è una mistificazione. Dal mio punto di vista non c'è nessuna progettualità, ma solo voglia di mettersi in mostra, usando una  pseudo-fama di fronte a persone un po' sprovvedute.


Quindi, per concludere, se ti cerchiamo su Facebook non ti troviamo?

 

Lo uso pochissimo, come Twitter? Io non ho mai usato neanche gli RSS o i Reader? Tempo fa qualcuno, mi sembra fosse Morozov, diceva che si è perso quel feeling di navigare online per caso, seguendo un link e andando alla scoperta di quello che succede. Oggi Twitter, Facebbok o gli RSS ti impongono un percorso pre-organizzato. E alla fine ti perdi comunque. Per questo li uso pochissimo. E sai alla fine qual è il rischio? Di incontrare online le solite persone, quelle che fanno parte in un'elite, in Africa come in Europa.


Dunque, come dare voce a chi non ce l'ha?

 

Creando realtà in grado di raccontare storie locali, come fa il progetto Raising Voices di Global Voices che dà sostegno a piccolissime comunità sperdute nel mondo. Attraverso un contatto locale che conosce bene il territorio, creiamo un legame con GV che si mette a disposizione per dare supporto, assistenza, training perché un gruppo di cittadini diventi autonomo e testimone di quello che gli succede intorno. Secondo me è questa la chiave del futuro.

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