Edoardo Petti

Claudio Martelli, l'ex Guardasigilli che lo vollè a capo dell'Antimafia, ricorda l'isolamento del magistrato nella lotta dura ai mafiosi. E sottolinea il silenzio della politica quando Conso (ministro della Giustizia dopo di lui) rivelò l'eliminazione del 41 bis per 400 mafiosi. Pietro Grasso: «Falcone voleva creare una Fbi italiana. Furono delittuosi e irresponsabili i processi che dovette subire dai colleghi».

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«È passato un anno da quando Giovanni Conso
, illustre giurista e mio successore alla guida del dicastero di Grazia e Giustizia, rivelò in un'audizione pubblica davanti alla Commissione parlamentare anti-mafia di avere deciso, nel 1993, di sottrarre 400 boss e affiliati a Cosa Nostra al regime del carcere duro previsto dall'articolo 41 bis. Un'iniziativa assunta nell'assoluto silenzio della politica, della magistratura e del Csm, dell'informazione, che rappresentò agli occhi di Cosa Nostra un segnale di debolezza, di capitolazione e di resa unilaterale dello Stato. Alimentando e incoraggiando l'offensiva stragista e terroristica dell'organizzazione criminale».

Partecipando alla presentazione del libro "Pax mafiosa o guerra. A vent'anni dalle stragi di Palermo", scritto da Vincenzo Scotti, capo del Viminale all'inizio degli anni Novanta, Claudio Martelli lancia un durissimo j'accuse contro quella che definisce una delle pagine più oscure della storia repubblicana, e chiede di fare luce al più presto sulle ragioni di tale scelta, «condivisa dall'allora responsabile dell'Interno Nicola Mancino, dal direttore dell'amministrazione penitenziaria Nicolò Amato e dal capo della Polizia Parisi». L'ex Guardasigilli, che volle fortemente Giovanni Falcone alla guida del Dipartimento affari penali di Via Arenula per architettare e portare a compimento una strategia di ampio respiro, rigorosa e avanzata di lotta al potere e agli affari di Cosa Nostra, non esita a definire «un crimine politico se non penale» la decisione intrapresa da Conso all'indomani dell'attentato di Capaci, «un atto documentato dal suo primo responsabile, passato incredibilmente sotto silenzio in un'Italia che preferisce appassionarsi alla presunta trattativa fra l'uomo d'onore Vito Ciancimino e due ufficiali dei Carabinieri». A rendere del tutto inaccettabile e intollerabile il gesto compiuto dal suo successore alla Giustizia, osserva Martelli, sono le motivazioni che lo ispirarono: «Conso era persuaso che favorendo la componente cosiddetta moderata di Cosa Nostra, capitanata da Bernardo Provenzano, avrebbe potuto interrompere la campagna terroristica dei boss». Parole che a suo giudizio impongono un'immediata convocazione del giurista da parte dell'organismo parlamentare di inchiesta.

L'intervento dell'ex vicesegretario del Partito socialista trasuda tutta l'amarezza e la rabbia per non essere stato riconfermato nel ruolo di Guardasigilli nei mesi cruciali e drammatici a cavallo tra l'eccidio di Capaci e l'attentato di Via D'Amelio, ed esprime il dolore per quella che non solo ai suoi occhi appare ancora oggi come un'estromissione politica ingiustificata. Atto di emarginazione che coinvolse anche il suo collega Scotti, "promosso" da Giuliano Amato alla Farnesina e sostituito alla guida del Viminale da Mancino. Ma il dolore e la consapevolezza per avere visto interrotto senza ragione "l'impegno sognato da una vita" e la consapevolezza di un lavoro rimasto incompiuto, si accompagnano all'orgoglio della rivendicazione della "battaglia portata avanti e vinta in appena sei mesi contro la mafia corleonese e la sua struttura gerarchica e militare". Mafia che "certo non venne debellata, ma fu stretta nella morsa soffocante di una tenaglia costruita da Giovanni Falcone grazie a innovazioni e strumenti decisivi ed esemplari".

A cominciare dall'introduzione del carcere duro per i boss mafiosi, "che rientra pienamente nei parametri di civiltà stabiliti dalla nostra Costituzione visto che non prevede trattamenti disumani o afflittivi nei confronti dei detenuti", e dalla legge sui pentiti e sulla protezione dei collaboratori di giustizia. Provvedimenti, ricorda Martelli, fortemente voluti da Falcone, anche a costo di scontri durissimi con i propri colleghi. In un primo tempo, con la magistratura più tradizionalista e conservatrice che non riteneva legittimo processare l'organizzazione mafiosa e privilegiava il quieto vivere e una sostanziale estraneità dello Stato verso le guerre criminali per bande. Poi, alla fine degli anni Ottanta, con i giudici e con lo stesso Consiglio superiore che in nome della lotta verbale e del professionismo dell'anti-mafia calpestavano le regole e la certezza del diritto. E successivamente con la Procura di Palermo, colpevole di avere smantellato il pool che concepì il maxi processo del 1986 alla Cupola, e portatore di una linea di ridimensionamento della mafia a realtà locale priva di una gerarchia piramidale.

Falcone fu sconfitto dunque. Tuttavia, evidenzia l'ex Guardasigilli, non rinunciò mai al rigore e allo scrupolo scientifico nelle sue indagini, e rifiutò sempre di "fare politica attraverso la giustizia: a differenza di un personaggio come Leoluca Orlando Cascio, che il magistrato accusò di avere consentito a Vito Ciancimino di tornare a spadroneggiare nel mondo degli appalti negli anni in cui fu per la prima volta sindaco di Palermo". Pratica che rappresenta in forma emblematica le regole non scritte della coesistenza e della "pace" secolare tra istituzioni pubbliche e criminalità organizzata. Un legame in cui "si fatica a distinguere l'essere vittima dall'essere collusi" e che venne scardinato dall'offensiva dello Stato di diritto dei primi anni Novanta, anche grazie alla reazione e alla ribellione contro il prepotere mafioso di figure come Libero Grassi.

Accanto a una società civile viva e guardinga, rimarca Martelli, è però necessario che le intuizioni e le innovazioni concepite da Falcone vengano rafforzate. "È doveroso attribuire alla Direzione nazionale anti-mafia il potere di avocare le indagini delle procure sui fenomeni malavitosi e di assegnarle la competenza nelle inchieste sul terrorismo, il cui confine con la criminalità organizzata appare sempre più labile".

Gli obiettivi delineati da Martelli trovano ampia risonanza nelle parole pronunciate dal procuratore nazionale anti-mafia Piero Grasso, il quale ricorda come Dia e Dda dovessero diventare nel progetto di Falcone una sorta di "Fbi italiana, braccio investigativo della procura generale finalizzata a coordinare e evitare qualunque dispersione nell'attività di indagine e di repressione". Ribadendo il proprio impegno per "realizzare il disegno messo a punto dal suo amico e collega finché vi sarà la possibilità di farlo", Grasso ricorda l'estrema lentezza e inadeguatezza che per decenni ha contraddistinto la risposta dello Stato nei confronti delle aggressioni e delle violenze di Cosa Nostra. "Fu la mafia a rompere per prima la tregua con le istituzioni compiendo l'eccidio di Portella della Ginestra nel 1947: una strage organizzata per affermare la propria egemonia sul territorio, così come tutte le azioni sanguinose intraprese da quel momento in poi".

La reazione dello Stato, puntualizza il magistrato, prese avvio solo nel 1982, all'indomani dell'assassinio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, grazie all'approvazione della legge Rognoni-La Torre sulla confisca dei beni e dei patrimoni criminali. Ma le l'inserimento di quelle norme nelle competenze della Direzione nazionale anti-mafia fu realizzato 17 anni più tardi. "Dimostrazione che solo quando vuole lo Stato sa e può agire efficacemente per neutralizzare la criminalità mafiosa: una realtà ormai divenuta sinonimo del potere, essenziale per descrivere un club esclusivo a cui si aderisce in cambio dell'obbedienza e della fedeltà assoluta, e che si è trasformato nel tempo in un fenomeno economico, sociale, politico basato sulla corruzione e su vaste reti di relazioni, privilegi, favori". La pervasività e la violenza intrinseca a un simile potere, osserva Grasso, getta una luce ancora più forte sull'opera di Giovanni Falcone e ci aiuta a comprenderne il valore e i meriti epocali. "Proprio per questa ragione risulta delittuosa e irresponsabile la guerra e i veri processi che più volte Giovanni dovette subire da parte di altri magistrati, dell'Anm e del Consiglio superiore, contro le sue iniziative lungimiranti e coraggiose. Era una lotta contro la mafia o contro il suo più feroce avversario?"  

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