I salari sono fermi da 20 anni, si riduce sempre di più la capacità di risparmiare. Quattro giovani su 10 a casa con i genitori. Il 33,7% delle donne tra i 25 e i 54 anni non percepisce alcun reddito.


Il Paese dove appena il 20,3% dei figli degli operai è arrivato all'università, contro il 61,9% dei figli delle classi agiate, della generazione nata negli anni '80. Dove il 30% dei figli degli operai abbandona le scuole superiori contro appena il 6,7% dei figli di dirigenti, imprenditori, liberi professionisti. Perché in Italia la selezione comincia dai banchi di scuola, e non si tratta di una selezione naturale: l'ascensore sociale è bloccato da lungo tempo, dagli anni '60. Ma è soprattutto ora, con la crisi, che le disuguaglianze si sono ampliate a livelli insopportabili per un Paese civile. Un Paese civile le colma attraverso la scuola e i servizi sociali. In Italia la scuola prende atto della disuguaglianza appena si conclude il ciclo obbligatorio, e i servizi sociali aumentano a dismisura le disparità tra Nord e Sud, uomini e donne, garantiti e atipici, giovani e anziani. Si vive più a lungo, metà dei disoccuipati lo sono da più di un anno, ma si registra una leggera ripresa dell'occupazione, anche se il 35% dei giovani sono precari. I salari sono fermi da vent'anni. L'economia è al livelli pre-crisi e le imprese italiane rischiano il credit crunch.

E' il quadro che, in estrema sisntesi, emerge dal Rapporto annuale dell'Istat sulla situazione del Paese, presentato oggi alla Camera.
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Classi sociali ghetto
Che l'ascensore sociale si fosse bloccato da oltre 50 anni non ce ne siamo accorti inizialmente per via dei cambiamenti nella struttura dell'occupazione che, a partire dal dopoguerra, ricorda l'Istat, hanno interessato in misura massiccia il settore agricolo, che si è via via ridimensionato a favore degli altri settori produttivi. E così "si sono spostati 9 figli di operai agricoli e poco meno di nove figli dei coltivatori diretti e piccoli proprietari terrieri su 10", e "la quota degli operai agricoli sul totale degli occupati si è ridotta considerevolmente, passando dal 7,7 per cento all'1,6 per cento".
Però, al netto di questo movimento, "la classe sociale di origine influisce in misura rilevante sul risultato finale, determinando rilevanti disuguaglianze nelle opportunità offerte agli individui: al netto degli effetti strutturali, tutte le classi (in particolare quelle poste agli estremi della scala sociale) tendono a trattenere al loro interno buona parte dei propri figli e i cambiamenti di classe sono tanto meno frequenti quanto più grande è la distanza che le separa".

Il contributo del fisco alla disuguaglianza
Il fisco, rileva l'Istat, dovrebbe avere un effetto redistributivo. E in effetti le detrazioni Irpef pari a 1.230 euro in media per i contribuenti a basso reddito si riducono a 720 euro per chi ha un reddito tra i 28.000 e i 55.000 euro per poi annullarsi, e anche le detrazioni per i familiari a carico vanno a vantaggio dei redditi più bassi. Però "gli abbattimenti e le deduzioni dell'imponibile, invece, favoriscono particolarmente le famiglie ad alto reddito e riducono la progressitività". Infatti sono massime (circa 5.700 euro) per i contribuenti che dichiarano più di 75.000 euro e minime (880 euro) per chi dichiara meno di 15.000 euro. Per gli incapienti (coloro che non arrivano al reddito minimo tassabile) non è previsto alcun beneficio. Inoltre le detrazioni favoriscono le famiglie con due o più percettori di reddito, contro quelle in cui a lavorare è solo uno.

Le donne, sempre più escluse
Nei Paesi scandinavi le coppie in cui la donna non percepisce un reddito da lavoro sono meno del 4%, in Francia il 10,9%, in Spagna il 22,8%, nella Ue27 il 19,8%. In Italia il 33,7% delle donne tra i 25 e i 54 anni non percepisce alcun reddito, dato che ci fa precipitare in fondo alla classifica europea per il contributo della donna ai redditi della donna. Come vivono queste donne a carico dei mariti? L'Istat ce ne riporta un ritratto di sapore medievale, che vale la pena di riportare per intero.

L'angelo del focolare
"Nelle coppie in cui la donna non lavora (30% del totale) è più alta la frequenza dei casi in cui lei non ha accesso al conto corrente (47,1% contro il 28,6% degli uomini); non è libera di spendere per sé stessa (28,3%), non condivide le decisioni importanti con il partner (circa il 20%); non è titolare dell'abitazione di proprietà". Inoltre le mogli separate o divorziate sono più esposte al rischio di povertà a fronte dei mariti nella stessa situazione: 24% contro 15,3%.

Mezzogiorno: la débâcle dei servizi sociali
Nel Mezzogiorno va peggio per tutti: per gli operai, per i giovani, per le donne. Ma quello che colpisce è il viaggio che l'Istat ha compiuto nei servizi sociali. I servizi sociali, proprio come la scuola, dovrebbero attuare il secondo comma dell'articolo 3 della Costituzione: mettere i cittadini svantaggiati nelle medesime condizioni di partenza di quelli privilegiati.
E invece là dove l'economia è depressa, e dove è più importante il ruolo dei servizi sociali pubblici, si spende meno e male. Qualche dato: nel 2010 il Servizio sanitario nazionale ha speso 1833 euro pro capite, che vanno dai 2.191 della provincia di Bolzano ai 1.690 della Sicilia. Le strutture residenziali per anziani offrono in media 37 posti letto ogni 1000 anziani residenti nel Nord, e appena 10 al Sud. I livelli più alti di soddisfazione per i servizi ospedalieri si riscontrano in Piemonte, Valle d'Aosta, Trento, Veneto, Emilia Romagna e Toscana, i più bassi in Campania e Sicilia.
La spesa sociale nel 2009 in seguito alla crisi è diminuita dell'1,5% nel Mezzogiorno, ma è aumetnata del 6% nel Nord-Est, del 4,2% nel Nord-Ovest e del 5% al Centro. Per i servizi sociali i comuni calabresi spendono 26 euro a persona, quelli della Provincia Autonoma di Trento 280 euro. Per i disabili i comuni del Sud spendono otto volte meno di quelli del Nord. I nidi pubblici sono presenti nel 78% dei Comuni del Nord-Est ma nel 21% di quelli del Sud.

Gli atipici, i paria del mondo del lavoro
I dati Istat sulle disuguaglianze a sfavore dei lavoratori atipici dovrebbero far riflettere chi esalta i pregi della flessibilità. Il peso degli occupati atipici (cioè dipendenti a tempo determinato, collaboratori o prestatori d'opera occasionali) sul totale degli occupati è in aumento, tanto che è entrato nel mondo del lavoro da atipico il 31,1% dei nati negli anni '70, ma il 44,6% dei nati dagli anni '80 in poi. Non sempre quest'ingresso dà l'accesso a un'occupazione stabile. Anche qui, la classe sociale di provenienza gioca pesantemente il suo ruolo: "Il passaggio a lavori standard è più facile per gli appartenenti alla classe sociale più alta, mentre chi ha iniziato come operaio in un lavoro atipico, dopo dieci anni, nel 29,7% dei casi è ancora precario e nell'11,6% ha perso il lavoro".

Economia sotto il livello pre-crisi
Il Pil italiano in volume ha segnato nel 2011 una crescita dello 0,4%. L'Istat nel Rapporto sottolinea che «l'attività economica non ha ancora recuperato il livello precedente alla crisi del 2008-2009». Il sistema delle imprese italiane, «che non aveva ancora recuperato le perdite subite con la crisi del 2008-2009, ha sperimentato nel 2011 una nuova fase di difficoltà derivante dal sovrapporsi di una contrazione della domanda interna e di un indebolimento di quella estera», spiega l'Istat. «Il recupero ciclico dell'attività produttiva dai minimi del 2009 è proseguito fino alla prima metà del 2011, per poi segnare - evidenzia - una netta inversione di tendenza nella seconda parte dell'anno».

Salari fermi da vent'anni
I salari reali sono rimasti al palo in Italia negli ultimi 20 anni. «Tra il 1993 e il 2011 - spiega l'Istat - le retribuzioni contrattuali mostrano, in termini reali, una variazione nulla, mentre per quelle di fatto si rileva una crescita di quattro decimi di punto l'anno».

Occupazione in aumento nel centro-nord
In italia, l'occupazione totale é aumentata tra il 1993 e il 2011 di circa 1,7 milioni (+7,8 per cento). L'aumento ha riguardato esclusivamente il centro-nord, mentre nel mezzogiorno l'occupazione é passata da circa 6,4 a 6,2 milioni. Tra il 1995 e il 2011, l'occupazione nei paesi Ue15 é aumentata di 24,7 milioni di unità (+16,6 per cento). La crescita é stata costante fino al 2008, in netta caduta nel 2009-2010 e in modesta ripresa lo scorso anno. «Sulla base delle stime di contabilitá nazionale, l'occupazione, in termini di unitá di lavoro standard, è cresciuta dello 0,1 per cento nel 2011 (23 mila unitá di lavoro in più rispetto al 2010) - si legge nel Rapporto annuale Istat 2012-. L'incremento del volume di lavoro è derivato dalla contrazione dello 0,7 per cento della componente indipendente, mentre quella alle dipendenze ha segnato una crescita dello 0,4 per cento».

Metà dei disoccupati non trova lavoro da un anno
Metà dei disoccupati italiani non trova lavoro da almeno un anno (51,3%). Un dato allarmante emerso dall'ultimo rapporto Istat, se confrontato con il 2010 in cui la disoccupazione di lunga durata toccava il 48% dei lavoratori mentre nel 2008 il 45%. Inoltre, emerge che continua a crescere a ritmi sostenuti il numero di persone in cerca di una prima occupazione: un fenomeno che investe soprattutto le donne e i giovani fino ai 29 anni. Per quest'ultimi, il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 23% nel quarto trimestre 2011 (era il 21,1 nello stesso periodo del 2010).

Meno occupati under 30
Nel 2011 sono diminuiti gli occupati appartenenti alle classi d'età più giovani: 93 mila in meno tra i 15 e i 29 anni e 66 mila in meno tra i 30 e i 49 anni. Lo rileva l'Istat nel Rapporto annuale 2012, aggiungendo che, invece, sono cresciuti gli occupati con almeno 50 anni (+254 mila persone), un tendenza che, spiega l'Istituto di statistica, «può essere ricondotta alla modifica dei requisiti, sempre più stringenti, per accedere alla pensione».

Si vive più a lungo
Si vive sempre più a lungo, gli uomini in media 79,4 anni e le donne 84,5. In Europa soltanto gli uomini svedesi hanno una speranza di vita (79,6 anni) superiore a quella degli italiani, mentre solo in Francia e in Spagna le donne sono più longeve delle italiane (85,3 anni in entrambi i paesi). Dal 1992 a oggi gli uomini hanno guadagnato 5,4 anni di vita media e le donne 3,9 anni, soprattutto grazie alla riduzione della mortalità nelle età adulte e senili. Alla riduzione della mortalità per malattie del sistema circolatorio si deve un guadagno di 2,1 anni in entrambi i sessi, mentre la riduzione della mortalità per tumori maligni ha contribuito per 1,2 anni all'incremento della vita media degli uomini e per 0,6 anni a quello delle donne.

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