Negli ultimi anni si è assistito a un impegno senza precedenti, da parte dei principali leader politici di tutto il mondo, per la lotta all'evasione fiscale internazionale. Ma questi sforzi, di fatto, sarebbero stati vani.
Lo dimostra uno studio, citato dal Guardian, che si basa sui dati della Banca dei regolamenti internazionali (BIS). Questi ultimi dimostrano infatti che, nell'anno appena trascorso, circa 2.700 miliardi di dollari erano celati nei conti bancari offshore. Una somma sostanzialmente equivalente a quella del 2007. Secondo gli accademici Niels Johannesen e Gabriel Zucman, che hanno condotto la ricerca, ciò significa che i numerosi trattati internazionali non sono riusciti pienamente nel proprio intento. Per la stragrande maggioranza, infatti, si tratta di trattati bilaterali. Il che significa che gli evasori - magari tramite complesse strutture societarie - hanno "spostato" i propri capitali da un paradiso fiscale all'altro. Prediligendo gli Stati che ne hanno siglati in misura minore: come Cipro, in cui il volume dei depositi ha segnato un +60%. In sintesi, i governi non sono ancora riusciti a obbligare gli evasori a far tornare i propri asset negli Stati di pertinenza.
Questi dati segnano un netto contrasto con l'ottimismo che traspariva dalle conclusioni ufficiali raggiunte dal G20. Solo lo scorso novembre, infatti, il segretario generale dell'OCSE Angel Gurria aveva dichiarato conclusa l'era del segreto bancario. Pur riconoscendo che ci fosse ancora da lavorare in alcune zone, aveva insistito: «Ora non è più possibile celare asset o redditi senza rischiare di essere scoperti». Di fronte a questa ricerca, mentre l'OCSE invita alla prudenza, i rappresentanti delle campagne contro l'evasione fiscale alzano la voce. Rivendicando la sostanziale inefficacia dei trattati bilaterali e la necessità di misure più radicali.