Se ne è andato uno spirito libero d'Europa. Antonio Tabucchi, il nostro scrittore più europeo, si è spento a Lisbona.

Il Portogallo è stata la sua terra d'elezione. Da lì guardava il mondo, spingendo il suo estro fino al continente indiano. Chi non ricorda Notturno indiano, splendida metafora della ricerca di sé stessi attraverso la ricerca dell'altro da sé? Dal Portogallo - che nel drammatico novecento, oltre a lui, ci ha donato Pessoa e Saramago, entrambi scrittori plurali, cantori dell'identità nel molteplice - Tabucchi ha saputo vedere la nostra Europa con lo sguardo degli ultimi. Di lui, ricordiamo il grande impegno civile, a favore della pace e dei diritti di tutti, in particolare dei migranti.

Ricordiamo il grande polemista che non arretrava di fronte alle reprimenda e alle querele del potere politico.

Ricordiamo il fiero spirito libertario e antifascista, tradotto in quel Sostiene Pereira che gli diede maggior fama, anche grazie alla trasposizione cinematografica con un attore così amato come Mastroianni.

Ma in Tabucchi non c'era separazione fra impegno civile e politico e dimensione letteraria. L'una cosa diventava l'altra senza sforzo alcuno, senza soluzione di continuità. E' questo un privilegio solo dei grandi. E Tabucchi è tra questi.

Gli dedichiamo perciò niente altro che un suo libro, forse il più bello ma non il più noto: Requiem, che scrisse direttamente in portoghese agli inizi degli anni Novanta. Leggendolo abbiamo sentito, odorato, gustato, capito che cosa è il Portogallo, quella lingua di terra che apre all'Europa l'Occidente.

Abbiamo nuovamente imparato cosa è la letteratura: un infinito cammino verso l'essenza della vita attraverso il sogno. Requiem, Antonio.

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