Il Fair Trade, letteralmente Commercio Equo, è uno dei settori in forte espansione nonostante la crisi. I prodotti marchiati da questi label stanno conquistando nuove quote di mercato ed è proprio sulla possibilità di espansione che è nata una frattura interna al movimento. Da un lato c'è Fair Trade Intenational che è presente in decine di paesi e che ha più di 20 marchi registrati, dall'altra c'è Fair Trade Usa. Paolo Pastore è il direttore di Fair Trade Italia e spiega: "La rottura è iniziata a settembre, Fair Trade Usa spingeva per l'apertura del mercato alle multinazionali e per la revisione di alcuni standard. Noi come Italia ci siamo schierati sin da principio con l'associazione internazionale". Dal primo gennaio la separazione della parte statunitense è stata formalizzata con la presentazione di una serie di nuovi marchi e con nuove certificazioni.

Il nodo del contendere sta nel fatto che Fair Trade Usa, dia ai grandi produttori la possibilità di poter certificare i propri prodotti con il marchio Fair Trade, questo vorrà dire in un qualche modo aprire al mondo del commercio equo anche alle grandi piantagioni: "Ci sono già - spiega Pastore- casi in cui i prodotti commercializzati arrivano da lavoro dipendente, ma sono piccoli casi: coltivatori che con 3-4 ettari hanno bisogno di qualche dipendente per la raccolta". Certo il discorso cambia nel caso in cui i grandi colossi dell'alimentare marchieranno i loro prodotti che vengono coltivati in piantagioni estese centinaia di ettari

La crescita delle quote di mercato fa gola a molti, l'anno scorso si è registrato un aumento del 27% sulle vendite dei prodotti marchiati Fair Trade. Nel solo Regno Unito il 30% del caffè venduto è di provenienza da produttori pagati il giusto e il cui caffè viene marchiato con uno dei label  di Fair Trade International. Questo trend positivo non sembra soddisfare Nico Roozen, fondatore di Fair Trade International  e adesso mentore della branca Usa. Seguendo lo slogan "Fair Trade for all" gli statunitensi si propongo di raddoppiare il giro d'affari entro il 2015, per fare questo le loro certificazioni verranno date anche a grandi marchi come Starbucks o Nestlè che non cambieranno la loro politica produttiva, anzi facilmente imporranno i loro standard ai marchi Fair Trade. Si rischia quindi di far diventare questi label come un mezzo per migliorare l'immagine delle multinazionali.

Al momento esistono progetti in cui le multinazionali sono coinvolte con il commercio equo come racconta Pastore: "In Inghilterra abbiamo due grossi progetti con le grandi aziende che si occupano di cacao: Nestlè, Mars e Cadbury. In questo caso sono loro ad aver scelto di usare i prodotti che noi certifichiamo e non siamo stati noi a certificare i loro". Questa differenza rende evidente, come le multinazionali siano interessate a venire incontro al pubblico, che cerca le certificazione del commercio equo. Fair Trade Usa ha quindi deciso di fare un passo verso le aziende, speriamo che questo non sia a solo vantaggio delle corporations, ma anche dei contadini di tutto il mondo. Circa due miliardi di persone vivono con meno di due dollari al giorno, chissà se il sistema che ha creato questa povertà , sarà in grado in auto limitarsi e promuovere lo sviluppo agricolo a favore dei più deboli.

I contadini del centro-america, grandi produttori del caffè venduto negli states, hanno già risposto a questo cambio di rotta di Fair Trade Usa. Dalle pagine del "Guatemala Times", la rete di contadini del Mexican Coordinator of Small Fair Trade Producers ha criticato duramente la scelta statunitense come una progressiva "neoliberalizzazione" del movimento, ricordando come "il sistema neoliberista sia in piena crisi e come il movimento abbia la responsabilità di costruire un altro modello: democratico ed equo per tutti, compreso il nostro pianeta".

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