La geografia dei diritti umani, a distanza di oltre 60 anni dall'approvazione della Dichiarazione del 1948, mostra ancora una smisurata quantità di macchie che stanno a indicare le continue e diffuse violazioni in molti Stati del pianeta.

La Dichiarazione è stata scritta dopo l'evento che aveva segnato nella coscienza degli estensori e di milioni di persone una cesura netta tra la civiltà della guerra e dello sterminio e una nuova civiltà fondata sulla pace e la tutela dei diritti fondamentali degli individui. Da allora i progressi ci sono stati, ma seguendo un percorso molto accidentato e contraddittorio che ne ha spesso offuscato la portata.

Troppo spesso i diritti umani, nel corso di questi decenni, sono stati merce di scambio al servizio della geopolitica e in nome della ragion di Stato il riflettore sulle violazioni ha illuminato in maniera arbitraria alcuni lati del pianeta a discapito di altri. Per queste ragioni si è andata diffondendo la convinzione che il monitoraggio sia delle violazioni dei diritti umani che delle azioni di contrasto debba essere messe in campo da autorità indipendenti, legittimate dalle autorità statali, ma libere di denunciare qualsiasi situazione in cui venga messa in mora il pieno rispetto della Dichiarazione.

Per capire, senza andare troppo lontano nel tempo, aiuta sottolineare come oggi sia facile esaltare la primavera araba e l'eroismo dei ragazzi Tunisini, Egiziani, Libici o Siriani, ma al tempo stesso ricordare che gli stessi dittatori deposti, responsabili di massacri e sistematiche violazioni dei diritti umani siano stati, negli anni, ricevuti e riveriti dai Capi di stato delle democrazie occidentali in nome della non ingerenza diplomatica.

Il mondo che stiamo consegnando alle nuove generazioni sarà sempre meno disposto ad accettare la globalizzazione delle merci e la nazionalizzazione dei diritti quando questo significhi carcere, tortura, discriminazioni etniche, sessismo.

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