In questo preciso momento quasi un miliardo di persone soffre la fame e vive ai margini del sistema alimentare globale. Per intenderci, si tratta di un numero di persone superiore alla somma delle popolazioni di Unione Europea, Usa, Canada, Giappone e Australia messe insieme. Un altro miliardo di persone soffe di ciò che tecnicamente si definisce "fame nascosta", non avendo accesso alla necessaria quantità di vitamine e minerali per potersi sviluppare e condurre una vita sana.
Questa situazione globale - circa un terzo della popolazione mondiale che vive in situazioni di fame e insicurezza nutrizionale - rischia di aggravarsi per effetto dei cambiamenti climatici. Al riguardo, sin dal 2007, l'autoevole Intergovernment Panel on Climate Change (IPCC) ha evidenziato come il riscaldamento del pianeta e condizioni climatiche più estreme e imprevedibili possono avere effetti molto negativi su produzione alimentare e condizioni di vita di miliardi di poveri, coloro che si trovano alla base della piramide della ricchezza globale.
Secondo l'International Food Policy Research Institute (IFPRI), per il solo effetto del cambio climatico sulle produzioni, il numero globale di persone che soffre la fame potrebbe aumentare del 20 per cento entro il 2050, con aumenti particolarmente vistosi in Africa Sub-sahariana (65 per cento). Per quella data, la popolazione mondiale avrà probabilmente superato la soglia dei 9 miliardi di persone, il che da solo richiederà aumenti della produzione alimentare tra il 60 e il 70 per cento.
Queste proiezioni non considerano però altri fattori, ad esempio l'incremento dei disastri naturali, il processo di progressivo impoverimento delle risorse ambientali e la crisi degli ecosistemi, così come la crescente volatilità dei prezzi dei beni alimentari di base.
Secondo le stime, già oggi otto disastri naturali su dieci sono dovuti a fattori climatici. Nel 2010, tali disastri hanno colpito circa 300 milioni di persone nel mondo, due terzi dei quali vittime di inondazioni. Si tratta di un trend in crescita che riflette anche la maggiore irregolarità e imprevedibilità dei fenomeni climatici in alcune aree del pianeta. Tra i poveri, i disastri naturali spesso determinano una perdita dei mezzi di sussistenza, l'abbandono dei processi di scolarizzazione dell'infanzia e un immediato peggioramento delle condizioni nutrizionali e alimentari.
Presso le popolazioni più povere e marginali, quelle che vivono nelle aree più a rischio, il ricorrere di disastri naturali genera, dunque, un circolo vizioso di povertà, fame e vulnerabilità. Le ramificazioni sono vastissime. L'inondazione che ha colpito il Pakistan nel 2010, ad esempio, ha creato circa 2 milioni di sfollati e, contemporaneamenete, quasi annullato gli effetti delle politiche di sviluppo adottate nell'area per riscattare 20 milioni di persone dalla povertà.
Altri fattori come il degrado ambientale, la deforestazione e la crescente scarsità di risorse idriche sono destinati a giocare un ruolo cruciale negli equilibri alimentari di una vasta parte del pianeta. Già oggi, per fare un esempio, 650 milioni di persone in Africa vivono su terreni colpiti da processi di grave erosione e degrado eco-ambientale. Si ritiene che in buona misura questi processi potranno accelerarsi, per effetto del cambio climatico, estendendosi all'incirca ai due terzi delle terre arabili del continente già entro il 2025. Ciò avverrà parallelamente a un significativo aumento della popolazione e della pressione demografica, e con una diminuzione delle risorse idriche disponibili, il che risulterà in crescenti problemi di produzione e di accesso al cibo, e in condizioni socio-sanitarie molto deteriorate. Alla luce di ciò è possibile prevedere crescenti tensioni sociali e conflitti legati al controllo delle risorse scarse, così come fenomeni di progressivo abbandono delle aree rurali, di inurbamento e migrazione - tutti processi di difficile governabilità.
A questi scenari va aggiunta la situazione di grande volatilità dei prezzi dei beni alimentari di base - in particolare cereali - che si è recentemente creata sui mercati globali. La crisi dei prezzi dei cereali che ha colpito il mondo nel 2008 è un campanello di allarme per il futuro, e deve spingere a profonde e urgenti riflessioni e decisioni circa il funzionamento del sistema alimentare globale. La crisi, si ricorderà, fu causata da vari fattori concomitanti - siccità e inondazioni in alcuni importanti paesi produttori, una crescente domanda alimentare proveniente dalle economie emergenti, e l'utilizzo di raccolti per la produzione di biocarburante. Essa generò una situazione di grande tensione sui mercati con una repentina crescita dei prezzi dei cereali. Di ciò furono vittima milioni di persone che si trovarono di colpo impossibilitate ad accedere alle normali quantità di cibo e nutrizione per se e per le proprie famiglie.
E' importante ricordare che oggi centinaia di milioni di poveri usano sino al 70 per cento delle proprie risorse per l'acquisto di alimenti essenziali, cioè sono interamente dipendenti dai prezzi di mercato degli alimenti per la propria sopravvivenza. Per queste persone, povere e socialmente marginalizzate, non esistono ammortizzatori sociali e la linea di demarcazione che separa la sussistenza dalla fame è sottilissima. Nel giro di pochi mesi, la crisi del 2008 improvvisamente fece aumentare di quasi cento milioni il numero di persone che soffrivano la fame nel mondo. Gli scenari futuri non sono rassicuranti.
Un recente rapporto dell'organizzazione britanninca Oxfam stima che - in assenza di mutamenti sostanziali - entro il 2030 i prezzi delle derrate alimentari potrebbero aumentare del 70-90 per cento, e il potenziale effetto dei cambiamenti climatici potrebbe far lievitare il prezzo di mais, frumento e riso del 120-180 per cento.
I cambiamenti climatici rischiano, dunque, di divenire un fattore moltiplicatore della fame e dell'insicurezza alimentare a livello globale. Come far fronte a questa situazione?
Evidentemente le sfide sono gigantesche, globali e "sistemiche" e non esiste una soluzione univoca. Porre sotto controllo il livello delle emissioni per ridurre l'impatto dell'attività umana sul clima è un prerequisito urgente e non più procrastinabile, anche per il carattere irreversibile dei processi che si stanno ingenerando. In parallelo è necessario muovere rapidamente in varie direzioni per affrontare la sfida dell'alimentazione sul pianeta.
In primo luogo è necessario che aumentino produzione e disponibilità di cibo nutriente a livello globale e locale. Razionalizzazione delle risporse e innovazione tecnologica hanno un ruolo fondamentale in ciò. Diversamente dal passato, però, gli incrementi devono realizzarsi in modo socialmente inclusivo e sostenibile dal punto di vista delle risorse ambientali.
In secondo luogo, sappiamo che la semplice disponibilità di cibo sui mercati non è sufficiente a garantire la sicurezza alimentare tra le popolazioni più povere, quelle che non hanno capacità di accesso ai prodotti nè godono di reti di protezione sociale nei momenti di crisi. E', dunque, necessario sviluppare politiche che si incentrino sulla lotta alla povertà rurale e che appoggino le centinaia di milioni di piccoli produttori e le loro famiglie attraverso modelli efficienti dal punto di vista economico, e collegati ai mercati, e al tempo stesso inclusivi e solidali. Questi sforzi vanno supportati da politiche pubbliche di protezione sociale. Non si tratta di una sfida troppo onerosa. Studi recenti segnalano che il costo della fame - inteso come gestione pubblica degli effetti della fame e della malnutrizione - è molto più alto di quello delle politiche di "welfare" sociale rivelatesi al contempo importanti fattori di crescita economica. Gli esempi di Cile e Brasile lo dimostrano. Il Brasile ha investito nel Programma "Fame Zero" l'un per cento del suo PIL registrando un enorme successo nella riduzione di fame e povertà, mentre in molte nazioni meno attive il costo della fame tuttora incide per vari punti percentuali del PIL.
Terzo, la crescente imprevedibilità di molti fattori di rischio (ambientale, economico) impone uno sviluppo di sistemi avanzati di gestione di tali rischi soprattutto in quelle comunità povere, con poca terra per l'agricoltura e una elevata esposizione al rischio ambientale. In questo quadro, costruire un sistema alimentare resistente (resilient) e a "prova di clima" e rafforzare la capacità di adattamento delle comunità ai mutamenti climatici, sono obiettivi essenziali e strettamente connessi. Tali misure possono prevedere strumenti diversi, dall'assicurazione sui raccolti, a sistemi di allerta precoce, a riserve che possano mobilitare rapidamente mezzi, anche monetari, per far fronte alle emergenze oltre a soluzioni locali di gestione dei rischi e adattamento. Si tratta, in gran parte, di misure preventive che consentono, con limitati investimenti ex ante, di generare significativi risparmi e economie di scala. Si stima che ogni dollaro investito nella prevenzione consenta il risparmio di quattro dollari nella gestione della fase post-disastro.
Infine, intervenire sulle differenze di genere costituisce un elemento fondamentale di cambiamento e assieme una straordinaria opportunità. In larga misura nel mondo rurale sono le donne a garantire la sicurezza alimentare all'interno della famiglia. La loro presenza in agricoltura è massiccia. Eppure le donne hanno pochi mezzi a disposizione, raramente vantano alcun titolo di proprietà sulla terra, e hanno un limitato accesso a credito e servizi,così come a sementi, fertilizzanti e bestiame. Eppure si stima che eliminare il gap tra uomo e donna nell'accesso alle risorse produttive potrebbe far aumentare la produttività delle terre gestite dalle donne dal 20 al 30 per cento con una parallela diminuzione della malnutrizione, a livello mondiale, del 12-17 per cento, pari a 100-150 milioni di persone.
Per concludere, un sistema economico che condanna alla fame e alla povertà miliardi di persone non è sostenibile. La crisi generata dalla evidenza del cambio climatico offre oggi opportunità uniche per ripensare sistemi di produzione, distribuzione e accesso ai beni alimentari, in modo da renderli più equi ed inclusivi a livello locale e globale, e insieme più efficienti e sostenibili. Molte esperienze ci dicono che questa sfida può essere vinta. Ma evidentemente occorre uno sforzo globale e concertato per affermare una visione dello sviluppo che integri in maniera coerente aspetti sociali, economici e ambientali in una fase storica di condizioni climatiche radicalmente mutate.
Sheila Sisulu, Vice Direttore Esecutivo del WFP
Carlo Scaramella, Responsabile WFP per Cambiamenti climatici, ambiente e gestione dei rischi