Roberto Morrione: un grande giornalista, ma prima di tutto una grande persona e un caro amico.
Roberto, con quella sua lunga carriera alle spalle, le responsabilità che aveva ricoperto nel servizio pubblico, le importanti inchieste che aveva svolto, ci ha regalato in tutti questi anni la sua esperienza. Ha trasmesso a tanti giovani l'amore ma anche la responsabilità del giornalismo. Roberto credeva fino in fondo nella funzione sociale e civile di chi racconta e ragiona sui fatti, credeva che solo una democrazia consapevole, capace di raccontarsi con onestà, sia una democrazia sana, una democrazia viva.
Aveva costruito "Libera informazione", creduto nell'importanza di una analisi puntuale, approfondita sulle mafie, la corruzione, le tante forme d'illegalità, sapendo bene che non dovrebbe esserci bisogno di mettere accanto alla parola "informazione" l'aggettivo "libera". Perché l'informazione o è libera o, semplicemente, non è informazione: è propaganda, demagogia. Eppure sapeva, Roberto, che mai come in questi anni l'informazione corre il rischio di essere soffocata o asservita. Non accettava, Roberto, le parole troppo spesso imbrigliate, le penne opportunamente spuntate, le cronache monche o pilotate.
La sua era invece una penna che lasciava il segno. Coltivata a quella grande scuola che era stata la Rai degli anni sessanta, quella di Enzo Biagi. Una penna che andava al sodo, senza tanti fronzoli, sempre però dopo un lavoro di approfondimento, sempre dopo quello studio, quel lavoro di conoscenza che rende davvero il giornalismo un servizio per la collettività.
Non improvvisava, Roberto. Si preparava sempre con coscienza e scrupolosità, per lui non c'era persona, fatto, che non fossero degni di un'attenzione vera, autentica. Non ha mai sviluppato quel distacco, quel disincanto, che può sopraggiungere nel giornalista che ne ha viste tante.
Si commuoveva, Roberto, al ricordo di quei colleghi come Ilaria Alpi e Milan Hrovatin che per la ricerca della verità hanno perso la vita. Credeva a un giornalismo che fosse amore per la giustizia e distanza dal potere. Credeva che fosse questa l'etica del giornalismo, e prima ancora del giornalista.
Roberto era laico, ma da laico aveva la spiritualità, il senso dell'infinito, di tutte le persone che s'impegnano per la giustizia. Lo avevano colpito quelle parole del giudice Livatino, ucciso dalla mafia: «alla fine della vita non ci sarà chiesto se siamo stati credenti ma se siamo stati credibili».
Di lui mi porto dentro le cose costruite insieme, la sua generosa umanità, ma anche la grande dignità con cui ha affrontato la malattia, protetto dall'affetto di Mara e della sua famiglia.
L'ho visto pochi giorni fa in ospedale. Mi ha indicato con occhi vivi, compiaciuti, i fogli di carta appesi sulla parete. Erano i disegni che la nipotina aveva fatto per il nonno. C'erano tanti fiori colorati e una casa.
Ciao Roberto, grazie dei colori che ci hai donato. Sappi che in quella casa non smetteremo mai di venirti a trovare, per chiederti un consiglio, un articolo, una parola di denuncia e di speranza.
Luigi Ciotti