In Italia sono 4,2 milioni le persone in trattamento, per lo più donne, e nel 60 per cento dei casi le cure sono inefficaci. Al vaglio degli esperti nuovi farmaci. Chi accusa questa patologia perde un totale di giorni di lavoro sette volte superiore rispetto a chi non ne soffre
Sono 41,2 milioni in Italia le persone in trattamento farmacologico per la depressione. Sono più donne che uomini. E tre volte su cinque la terapia assunta si dimostra inefficace. Ad accendere i riflettori su una patologia che, secondo l'Organizzazione mondiale della sanità, nel 2020 sarà la seconda causa di disabilità al mondo dopo le patologie cardiache è il congresso della Società italiana di neuropsicofarmacologia (Sinpf) che si è appena svolto a Cagliari.
La depressione è una patologia che ha pesanti ricadute non solo su chi ne è affetto, ma che si ripercuote anche su famiglie e mondo del lavoro. Basti pensare che i giorni lavorativi persi da un depresso sono sette volte superiori rispetto a quelli che perde chi depresso non è. Inoltre, una persona depressa su tre lo è ancora dopo un anno, una su 10 deve continuare la terapia dopo cinque anni dal primo episodio e che oltre la metà dei malati avrà una ricaduta nell'arco della sua esistenza.
Non stupisce allora che secondo una recente indagine condotta dall'Osservatorio nazionale sulla salute della donna (Onda) ben il 54% delle donne ritiene che la depressione sia addirittura più difficilmente curabile del tumore al seno. Come se non bastasse, "le terapie finora a disposizione non alleviano immediatamente i sintomi depressivi: il malato può avvertire prima gli effetti collaterali dei farmaci, come quelli gastrointestinali e sul sonno, ma anche disturbi della sfera sessuale e aumento di peso che spesso portano all'interruzione del trattamento", ha sottolineato il presidente della Sinpf, Giovanni Bigio, durante il congresso di Cagliari.
Oltre alle criticità, le giornate di studio cagliaritane si sono concentrate su un aspetto di recente acquisizione nella conoscenza dei disturbi depressivi: l'interazione tra gene e ambiente. Non mancano, infatti, le ricerche che avvalorano l'ipotesi che la patologia mentale possa essere influenzata già nella vita intrauterina. "Sappiamo con certezza che se una donna durante la gravidanza abusa di alcol o di sostanze, viene maltrattata o subisce forti stress, il feto riceve segnali che modificano i geni coinvolti nello sviluppo del cervello", ha spiegato Biggio.
"Per questo parliamo di 'fenomeni epigenetici', cioè di come i geni dell'individuo vengano modificati, non nella struttura ma nella funzione, da input ambientali. Oggi finalmente abbiamo prove biologiche che l'ambiente esterno è in grado di modificare i geni". A rendere più macroscopico il fenomeno secondo gli esperti, ha concluso Biggio, anche i comportamenti e le abitudini dei giovani, in particolare la facilità con cui si consumano droghe e alcol.