Nessuno sa quanti fra i trecento eritrei detenuti a Sebha abbiano diritto all'asilo politico in quanto rifugiati. Nessuno sa, perché nessuno domanda. Nessuno sa, neppure, se fra quei trecento c'è qualcuno non che ha tentato di entrare in Italia e non c'è riuscito. Nessuno sa, perché nessuno ha accertato. Ma cambierebbero le cose, se l'accertamento ci fosse stato? Perciò, quando qualcuno ci verrà a dire che nonc'era certezza che fra quei trecento la maggioranza non fosse fatta di ladroni, disertori, pregiudicati comuni, e non potenziali rifugiati, e che magari, in apparenza, l'Italia non c'entra, noi dovremo rispondere: è vero, non c'è certezza, non è stato possibile raggiungerla, questa certezza. Ma che l'Italia non c'entri, beh, questo è un altro discorso. È vero, manca la prova che siamo stati proprio noi a rimandare a Gheddafi «quegli » eritrei. Manca però anche la prova contraria: che non siamo stati noi.
Da anni i nostri governi menano vanto dei successi delle politiche dei respingimenti. Che, di per sé sole, ci mettono al riparo dalle domande, diciamo così, «pericolose ». Appena qualche drappello di (potenziali) profughi si affaccia alle nostre coste, non gli diamo tempo di aprire bocca, esibire documenti, contattare organizzazioni umanitarie, enti internazionali, i parenti che (forse) qualcuno di loro ha in Italia. Appena certe sagome scure e disperate si profilano all'orizzonte delle nostre sicurezze, le intercettiamo e le consegniamo alle affettuose cure del governo libico. Interveniamo in prevenzione. E lo facciamo perché è così che stiamo trattando, da anni, la materia dell'immigrazione: con una guerra preventiva. E in guerra, si sa, non solo non si va tanto per il sottile: anche se esistono leggi che regolamentano il diritto bellico, e le convenzioni internazionali sui prigionieri di guerra prevedono trattamenti sicuramente più umani di quelli ai quali sono assoggettati, oggi, gli eritrei temporaneamente detenuti da Gheddafi. Molti di quegli eritrei, soprattutto quei ragazzi e quelle ragazze destinati, per esempio, al servizio militare a tempo indeterminato nel deserto della Dancalia - che significa spesso morirci, in quel deserto - fuggono da una situazione economica e politica durissima e non hanno altro modo per andarsene che quello di sfidare lunghe marce attraverso altri deserti, di sabbia e di acqua, e arrivare da qualche parte da «clandestini».
E al ritorno non trovano altro che galera - in Libia o a casa loro- e spesso un destino peggiore. Eppure, ci sono ottime ragioni per immaginare che, nel caso dei detenuti eritrei, la nostra responsabilità di italiani sia persino maggiore che in altri casi. L'Eritrea è stata a lungo colonia italiana. Siamo stati insieme, noi ferengi e loro abescià per ottanta anni e continuiamo spesso a stare insieme anche adesso, noi che siamo stati allevati da tate con lo scialle bianco sulla testa, noi che siamo nati laggiù e loro che sono nati qui, noi che ci siamo innamorati insieme, sposati e fatto figli. Se fossimo un paese con una memoria e con una coscienza dovremmo conoscere il suono dei nomi di quegli eritrei che abbiamo respinto e conoscere le città da cui vengono come conosciamo quelle da cui verrebbe un turista americano o europeo. Nel bene e nel male siamo stati fratelli per tanto tempo e sempre nel bene e nel male abbiamo condiviso un pezzo di storia. Un certo pensiero di Destra, oggi abbastanza in voga, tende a dipingere il colonialismo italiano come una magnifica avventura di civiltà e progresso. Ci amerebbero ancora perché siamo (siamo stati) brava gente.
E tutto ciò sarebbe testimoniato dalla presenza di una vasta e ramificata colonia di eritrei/italiani tuttora legati sia a quel Paese che al nostro. Gli eritrei, insomma, sono ragazzi «nostri». Proprio perché noi, quando fummo colonialisti, lo fummo in modo meno aggressivo di altre potenze. Non a caso, nei giorni scorsi, il Belgio ha chiesto scusa al Congo, e i nostri organi di stampa - singolarmente silenti sulla tragedia dei trecento di Sebha - hanno sottolineato con enfasi l'avvenimento. I Belgi erano cattivi, noi eravamo «buoni». Perciò gli eritrei ci amano.Nesiamo davvero certi? Proviamo a pensare che cosa ne pensano quegli uomini rinchiusi in container 50 gradi all'ombra in una delle estati più calde del secolo? Che cosa pensano di noi italiani brava gente? Che cosa racconteranno ai loro figli di noi, se riusciranno a scampare al destino che pare ineluttabilmente attenderli? Al netto di ogni considerazione, ci sono trecento esseri umani che potrebbero morire da un momento all'altro. Ucciderli non risolverà il problema dell'immigrazione, refrattario a ogni «soluzione finale», e finanche intermedia.
Continueranno a cercare vie di fuga e di libertà, spinti dal bisogno e dalla disperazione, oppressi da dittature vergognose. Come fecero i nostri padri quando combattevano per l'indipendenza dell'Italia. I nostri padri che trovarono accoglienza, quand'erano migranti e disperati. Senza quell'accoglienza, oggi l'Italia non esisterebbe. Nemmeno quella che si autodefinisce «padana». I credenti, così attenti alla vita potenziale da preservare ad ogni costo, potrebbero sposare una battaglia per la salvezza di vite reali, concrete, vite di oggi, di qui e adesso. I nostalgici del buon colonialismo di un tempo potrebbero passarsi una mano sulla coscienza e decidere che, sì, in fondo, gli eritrei che ci hanno dato tanti shumbashi e tanti bravi zaptiè, ascari e quant'altro venuti a morire nelle nostre guerre, una mano la meritano. Chi invece quell'epoca non la rimpiange ma la critica potrebbe passarsi anche lui una mano sulla coscienza e fare ammenda delle nostre colpe aiutando adesso quel paese e quella gente che lasciammo allora al suo destino. Immaginiamo già le obiezioni prevedibili a questa sortita: ecco gli scrittori einaudiani, ecco i fighetti radical-chic che si lavano la coscienza con tante belle parole mentre noialtri lavoriamo per tenerci, tutti, e Lucarelli e De Cataldo per primi, al riparo dall'orda nera. E sta bene. Facciamo una proposta concreta.
Chiediamo agli scrittori, ai giornalisti, ai religiosi, agli spiriti liberi con i quali in questi ultimi giorni abbiamo condiviso la battaglia contro la «legge bavaglio» di fare un gesto di buona volontà. Chiediamo tutti insieme al nostro Governo di adoperarsi perché i trecento siano trasferiti in un luogo più umano. Chiediamo che siano comunicati i nomi dei trecento, e copie dei loro documenti. Chiediamo che si attivino le procedure per la concessione del diritto d'asilo, nei casi previsti dalla legge. Chiediamo di accertare chi ha parenti in Italia che potrebbero garantire per loro. Ci dichiariamo pronti ad «adottare» un profugo e la sua famiglia. Chiediamo, come dicono gli avvocati, «in estremo subordine», di non lasciarli morire.