In un nuovo rapporto diffuso oggi, Amnesty International ha affermato che la situazione dei diritti umani in Libia risente dell'assenza di riforme, nonostante il paese intenda giocare un ruolo di maggior rilievo sul piano internazionale.
Il rapporto, intitolato "La Libia di domani: quale speranza per i diritti umani?", denuncia il ricorso alle frustate per punire le adultere, la detenzione a tempo indeterminato e le violenze nei confronti di migranti, richiedenti asilo e rifugiati così come i casi irrisolti di sparizioni forzate di dissidenti. Di fronte a tutto questo, le forze di sicurezza restano immuni dalle conseguenze delle loro azioni.
"Se la Libia vuole essere credibile sul piano internazionale, le autorità devono assicurare che nessuno sia al di sopra della legge e che tutte le persone, comprese le più vulnerabili ed emarginate, vengano protette dalla legge. La repressione del dissenso deve cessare" - ha dichiarato Hassiba Hadj Sahraoui, vicedirettrice del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International.
Le violazioni dei diritti umani continuano a essere commesse dalle forze di sicurezza, in particolare dall'Agenzia per la sicurezza interna (Asi), che pare avere poteri incontrastati di arrestare, imprigionare e interrogare persone sospettate di essere dissidenti o di svolgere attività legate al terrorismo. Queste persone possono essere trattenute senza contatti con l'esterno per lunghi periodi di tempo, torturate e private dell'assistenza legale.
Centinaia di persone languono nelle prigioni libiche, anche dopo la fine della pena o dopo essere state assolte da un giudice, nonostante negli ultimi anni ne siano state rilasciate altrettante, tra cui alcune detenute illegalmente.
Mahmut Hamed Matar è in prigione dal 1990. Dopo 12 anni di carcere in attesa di giudizio, è stato condannato all'ergastolo al termine di un processo gravemente irregolare, in cui sono state utilizzate come prove dichiarazioni rese sotto tortura. Suo fratello, Jaballah Hamed Matar, un dissidente, è stato vittima di sparizione forzata nel 1990 al Cairo, Egitto. Le autorità libiche non hanno fatto nulla per indagare sulla sua scomparsa.
Nel corso della sua visita alla prigione di Jdeida, nel maggio 2009, Amnesty International ha incontrato sei donne condannate per "zina" (relazione sessuale tra un uomo e una donna al di fuori di un matrimonio legale). Quattro erano state condannate a periodi di carcere tra tre e quattro anni, le altre due a 100 frustate. Altre 32 donne erano in attesa del processo per la medesima imputazione.
Mouna (nome di fantasia) è stata arrestata nel dicembre 2008 dopo aver partorito. La direzione ospedaliera del Centro medico di Tripoli avrebbe informato la polizia che c'era stato un parto al di fuori del matrimonio. Mouna è stata arrestata mentre era ancora ricoverata, sottoposta a un breve processo e condannata a 100 frustate.
All'indomani degli attacchi dell'11 settembre 2001 negli Usa, le autorità libiche hanno fatto ricorso all'argomento della "guerra al terrore" per giustificare la detenzione arbitraria di centinaia di persone considerate voci critiche o una minaccia alla sicurezza nazionale.
Gli Usa hanno rinviato in Libia alcuni cittadini libici, precedentemente detenuti a Guantánamo Bay o in carceri segrete. Tra questi, Ibn Al Sheikh Al Libi, che si sarebbe poi suicidato nel 2009 nella prigione di Abu Salim. Nessun particolare delle indagini condotte sulla sua morte è stato reso noto.
I cittadini libici sospettati di attività legate al terrorismo rimandati nel paese continuano a rischiare la detenzione senza contatti con l'esterno, la tortura e processi gravemente irregolari.
Amnesty International ha riscontrato un modesto aumento della flessibilità delle autorità libiche nei confronti di coloro che le criticano. Dalla fine del giugno 2008, hanno permesso lo svolgimento delle proteste da parte delle famiglie dei prigionieri uccisi nel 1996 ad Abu Salim, il carcere in cui si ritiene che fino 1200 detenuti siano stati vittime di esecuzioni extragiudiziali.
Gli attivisti per i diritti umani, tuttavia, subiscono ancora persecuzioni e arresti mentre le autorità continuano a non rispondere alla loro richiesta di verità e giustizia.
Negli ultimi due anni, la Libia ha rilasciato una quindicina di prigionieri di coscienza ma non li ha risarciti per le violazioni subite né ha riformato le draconiane norme che limitano severamente i diritti alla libertà d'espressione e di associazione.
Migranti, rifugiati e richiedenti asilo, in maggior parte provenienti dall'Africa e in cerca di salvezza in Italia e in altri paesi dell'Unione europea, trovano invece arresti, detenzioni a tempo indeterminato e violenze in Libia.
Il paese non ha firmato la Convenzione delle Nazioni Unite sullo status di rifugiato dl 1951. Pertanto rifugiati e richiedenti asilo vengono rimandati indietro senza riguardo per il loro bisogno di protezione. All'inizio di giugno, le autorità libiche hanno comunicato all'Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati che doveva lasciare il paese, un gesto che avrà probabilmente un grave impatto sui rifugiati e sui richiedenti asilo.
La pena di morte continua a essere usata in modo massiccio, in particolar modo nei confronti dei cittadini stranieri, e può essere applicata per un'ampia gamma di reati, comprese attività che corrispondono al pacifico esercizio dei diritti alla libertà d'espressione e d'associazione.
Il direttore generale della polizia giudiziaria ha informato Amnesty International che, nel maggio 2009, i prigionieri nei bracci della morte erano 506, circa la metà dei quali cittadini stranieri.
"I partner internazionali della Libia non possono ignorare l'agghiacciante situazione dei diritti umani in nome dei loro interessi nazionali" - ha sottolineato Hassiba Hadj Sahraoui. "Come membro della comunità internazionale, la Libia ha la responsabilità di rispettare gli obblighi in materia di diritti umani e occuparsi delle violazioni anziché nasconderle. La contraddizione di un paese che contemporaneamente fa parte del Consiglio Onu dei diritti umani e rifiuta le visite dei suoi esperti indipendenti sui diritti umani, è stridente."
Il rapporto diffuso oggi, aggiornato fino alla metà del maggio 2010, è basato in parte su una visita di Amnesty International in Libia, la prima in cinque anni, durata una settimana nel maggio 2009.
La visita era stata preceduta da lunghi negoziati con le autorità di Tripoli. Amnesty International aveva chiesto di visitare non solo la capitale ma anche le città del sud-est e dell'est del paese. Alla fine, l'itinerario è stato limitato a Tripoli e a una breve visita a Misratah.
La visita è stata facilitata dalla Fondazione internazionale Gheddafi per la beneficienza e lo sviluppo, un organismo diretto da Saif al-Islam al-Gheddafi (figlio del leader libico, il colonnello Mu'ammar al-Gheddafi) che ha agevolato l'accesso di Amnesty International in alcuni centri di detenzione e collaborato ad assicurare il rilascio di alcuni detenuti.
I delegati di Amnesty International hanno discusso con alti funzionari governativi le preoccupazioni di lunga data per le violazioni dei diritti umani, hanno incontrato esponenti delle istituzioni della società civile e ottenuto di visitare alcuni prigionieri detenuti per motivi di sicurezza o in quanto migranti irregolari.
Le autorità competenti per la sicurezza hanno impedito ai delegati di Amnesty International di recarsi a Bengasi, come invece previsto, per incontrare i familiari di vittime di sparizioni forzate e hanno negato loro di visitare svariati prigionieri.
Nell'aprile 2010, Amnesty International ha inviato le sue conclusioni alle autorità libiche dicendosi disponibile a integrarle con eventuali osservazioni da parte loro, ma non ha ricevuto alcuna risposta.