In vista dei X Giochi invernali di Vancouver, intervista al fotografo che ha realizzato i più bei reportage sugli atleti con disabilità: "Sono più umani, disponibili e sensibili, delle persone normali, alla pari, con delle diverse opportunità. La pietà e la commiserazione dovrebbero far posto all'ammirazione"
ROMA - Partirà alla volta di Vancouver, dal 12 al 21 marzo, dove sarà il fotografo ufficiale del Comitato italiano paralimpico ai X Giochi paralimpici invernali. Per Michelangelo Gratton - che ha seguito i più significativi eventi sportivi dell'ultimo decennio (fra cui le Olimpiadi di Atlanta e Sydney, oltre a sei edizioni dei Mondiali di atletica leggera) - sta diventando un'abitudine fissare con gli scatti le imprese degli atleti disabili. Si è cimentato in reportage sugli sportivi con handicap a partire dal libro fotografico Il mito e la passione, sulle Paralimpiadi di Atene 2004. Un volume seguito, due anni dopo, da Neve, ghiaccio ed emozioni. Momenti dell'Italia alle Paraolimpiadi, testimonianza in immagini dei giochi di Torino. La sua ultima fatica professionale si intitola Pechino 2008. Un modo un sogno, edito sempre da Cip e INAIL: in scena colori, gare, pubblico e backstage con gli allenatori per esaltare le varie discipline in gara.
In che modo la disabilità ha incrociato il suo lavoro?
"La collaborazione con il Cip è nata casualmente: il Comitato cercava per le Paralimpiadi di Atene un fotografo per coprire la manifestazione, un professionista per far vedere agli atleti che c'era una copertura per documentare le loro imprese. Ho dato la disponibilità a condizione che da questo evento si potesse dar vita alla pubblicazione di un volume; il Cip è stato entusiasta del progetto, appoggiato in pieno anche dall'INAIL. Ho scattato liberamente, cercando di non seguire in maniera cronologica tutti gli avvenimenti, ma di esaltare lo sport paralimpico più che il singolo atleta, raccontando anche il rapporto viscerale e di fiducia con gli allenatori".
Quale il suo approccio con il mondo dell'handicap in "veste" sportiva?
"A livello mentale era una sfida; dopo il primo impatto, ho metabolizzato il disagio e ho visto solo l'atleta. Dal punto di vista della relazione, ho incontrato sportivi più umani, disponibili, sensibili. E cominciano a essere sdoganati anche nell'ambiente. Ho imparato a non impietosirmi, anche per strada, quando vedo un disabile: sono persone normali, alla pari, con delle diverse opportunità. La pietà e la commiserazione dovrebbero far posto all'ammirazione. Perché un atleta disabile è costretto a fare molta più fatica per allenarsi; colpisce la sua determinazione, insieme alla forza, nel raggiungere risultati. Colpiscono le emozioni, perché lo sport dà emozioni".
Ha girato tutto il mondo: come sono visti gli atleti disabili fuori dall'Italia?
"Ho notato che le gare di atleti disabili sono spesso inserite in contesti normodotati, specialmente ai Mondiali di atletica. Alcune nazioni risultano più preparate e competitive, anche se il Cip fa miracoli; cinesi e inglesi, ad esempio, hanno una nazionale più giovane della nostra. Alcuni atleti cominciano ad avanzare rivendicazioni sindacali su medaglie e premi. Ci vorrebbero più sovvenzioni e risorse per sviluppare la squadra olimpica italiana: vedere un nostro atleta sul podio è sempre un'emozione, e che sia disabile o no non fa più alcuna differenza".
(l.b/roma)