In attesa nella riunione di Montreal della Convenzione sui cambiamenti climatici dell'inizio di dicembre, i segnali che arrivano dalla comunità internazionale indicano un preoccupante calo di tensione che fa prevedere una situazione di stallo nelle trattative. Un primo tentativo di logoramento si era avuto questa estate con la proposta statunitense di una cooperazione degli Usa con Cina, India, Australia, Giappone e Corea sul fronte tecnologico. Questa iniziativa, seppure ufficialmente non in contrapposizione al protocollo di Kyoto, serviva a rilanciare il percorso caro a Bush contrario ad ogni obiettivo definito di riduzione delle emissioni.
Ai primi di novembre si è poi tenuto un incontro dei G8 allargato ai principali paesi in via di sviluppo. L'iniziativa, promossa da Blair, si è conclusa con un indebolimento rispetto alla posizione assunta dall'Unione Europea a marzo, che si basava su obiettivi incisivi di riduzione al 2020. Non solo, ma tra le opzioni sul tavolo delle trattative è tornato il nucleare, non menzionato invece a Kyoto. Cosa è successo dunque negli ultimi mesi? Si è indebolito il fronte dei paesi più impegnati sul fronte climatico, soprattutto per il cambio della leadership tedesca. Visti i mutati rapporti di forze, Blair ha ritenuto di fare un passo indietro pur di coinvolgere Usa, Cina e gli altri paesi in via di sviluppo nelle trattative sul post Kyoto.
Si fa così strada la ricerca di nuovi schemi rispetto alla definizione di impegni quantitativi. Dunque va bene fare qualcosa, ma senza assumersi degli obblighi. Il che significa concretamente un aumento delle emissioni del pianeta. E questo malgrado gli 8 anni passati dalla firma del Protocollo abbiano visto un accelerarsi dei segnali del cambiamento del clima (ritiro dei ghiacciai e della superficie dell'Artico, restringimento dei laghi africani, aumento della potenza degli uragani, incremento delle temperature?). Se vincerà questo approccio, la comunità internazionale invece di aumentare gli sforzi per ridurre i rischi crescenti, abdicherà al proprio ruolo nascondendo la testa sotto la sabbia.
Decisiva nello spingere verso questa pericolosa retromarcia è la posizione americana. Nessun paese in via di sviluppo sarà disposto a prendere in considerazione un proprio impegno fino a quando il principale responsabile delle emissioni non farà la sua parte. Dunque dovremo aspettare una nuova presidenza Usa per rimettere le carte in gioco. Altri tre anni, a meno che il mandato di Bush non si concluda prima.
10 novembre 2005
*direttore scientifico Kyoto Club