di Daniele Scaglione
Nella settimana in cui sono stati annunciati i Premi Nobel per la Medicina, la Fisica, la Chimica, e prima che venga assegnato quello per la Pace, una riflessione...
In passato, forse nel tentativo di valorizzare un particolare evento come un armistizio o l'impegno in favore di una determinata causa, il Nobel per la pace è stato assegnato a personaggi dal curriculum piuttosto discutibile: si pensi a Henry Kissinger, un diplomatico amico di tanti golpisti, a Yasser Arafat, che fino all'ultimo ha sostenuto con convinzione l'uso della pena di morte, a Jimmy Carter, che da presidente degli Stati Uniti tenne sul genocidio in Cambogia una posizione a dir poco ambigua dettata da considerazioni geopolitiche.
Si pensi anche a Kofi Annan, premiato nonostante le sue gravi responsabilità nel non aver fatto sì che l'ONU impedisse un altro genocidio, quello in Rwanda. Così, perché in molti si affannino a chiedere l'assegnazione del Nobel per la pace alla tal associazione, al tal politico, al tal attivista, è un po' un mistero, mentre sembra più facile capire perché ci sia chi oggi chiede che il premio venga assegnato a Sharon o chi addirittura lo vorrebbe assegnato postumo a Massud, il leone del Panshir che in vita si distinse sì per la sua battaglia in favore di un Afghanistan unito dove però le donne portassero diligentemente il burqa.
Certo, tra i premiati i nomi di privati e associazioni che hanno effettivamente compiuto opere meritorie sono in maggioranza. Rimane però la sensazione che il prestigio del Nobel per la pace con il tempo sia davvero andato calando. Eppure il rischio più grande che ogni anno incombe su questo riconoscimento non è che venga assegnato a chi non se lo merita bensì a chi non ne ha bisogno. Se a questa ricorrenza un merito resta è quello di dare visibilità e notorietà a persone e battaglie che altrimenti rimarrebbero sconosciute. Premiare l'iraniana Shirin Ebadi, attivista per i diritti umani o la keniana Wangari Maathai, ambientalista, è stata probabilmente una buona idea.
Chi ha organizzato concerti in tutto il mondo per promuovere la lotta alla povertà, una delle grandi priorità del pianeta, merita senz'altro un riconoscimento. Ma se il Nobel per il 2005 andasse a chi di suo è già in grado di farsi ascoltare da milioni di persone, forse si sprecherebbe un'occasione per ricordare e sostenere, ad esempio, un sindacalista in Colombia, una vedova che difende i bambini dalla guerra nella Repubblica Democratica del Congo, un'attivista sieropositiva che combatte contro l'Aids in Uganda, o anche un esponente della comunità musulmana oppressa nello Xinjang cinese.
Vita, 6 ottobre 2005