di Lucia Venturi, responsabile scientifico Legambiente
La rivista Lancet riconosce all'omeopatia solo l'effetto placebo. Possibile?
La ricerca pubblicata recentemente su Lancet - l'autorevole rivista di riferimento del mondo medico e scientifico - che riconosce all'omeopatia il solo effetto placebo, oltre a scatenare polemiche e proteste da parte di chi pratica l'uso di medicine non convenzionali, ha avuto il grande merito di far uscire notizie riguardo al decreto di recepimento della Direttiva europea su questa materia, in preparazione nel nostro paese.
Certo scoprire che se verrà approvato così com'è questo decreto non sarà più possibile far ricorso alla medicina omeopatica non è stata una buona notizia: ma almeno adesso potrà essere avviata una discussione che già lo studio di Lancet aveva fatto partire. Discussione che a mio parere non deve concentrarsi sul fatto se l'omeopatia funziona o no, o se l'effetto prodotto è solo un effetto placebo o se l'analisi condotta sulla rivista sia parziale, contestabile o meno, temi che lascio volentieri agli addetti ai lavori. (Anche se sembra davvero strano un effetto placebo su mucche e cavalli, ma tant'è).
L'argomento sul quale ritengo utile che invece vi sia una discussione in un panorama più vasto di non addetti ai lavori e di cittadini che utilizzano medicine non convenzionali, in maniera esclusiva o in associazione alle terapie classiche, è invece il seguente: ma perché questo ostracismo verso modalità già ampiamente in uso anche nel nostro paese e che in altri paesi, quali la Francia sono diffusi e consolidati?
Perché negare ai nove o 12 milioni di cittadini o quanti sono, che fanno ricorso a questo tipo di terapie di abbandonarle? Perché disconoscere il fatto che in molte regioni i piani sanitari già riconoscono le medicine non convenzionali a fianco di quelle allopatiche e che in diversi ospedali già esistono reparti che insieme agli antibiotici usano anche rimedi omeopatici per avere un più ampio ventaglio di terapie per aggredire e curare meglio le varie patologie che affliggono i loro pazienti?
Non mi è mai capitato di trovare da parte del mondo delle altre medicine - come preferisco definirle - la negazione degli effetti e dell'importanza degli antibiotici, semmai una critica al modo eccessivamente esteso con il quale spesso vengono utilizzati, tanto da mettere a rischio la loro funzionalità nel momento del vero bisogno.
Non mi risulta che da parte di medici omeopatici o antroposofici venga sconsigliato ad ammalati di cancro di fare ricorso alla chemioterapia se ve ne è necessità, semmai consigliano a questi pazienti rimedi che possano aiutarli a sopportare meglio gli effetti negativi che sul resto del loro organismo comportano questi trattamenti. Anche perché chi pratica l'omeopatia o l'antroposofia è comunque un medico a tutti gli effetti, la differenza è nel fatto che il suo approccio è rivolto più al soggetto inteso nella sua complessità che non all'organo ammalato.
Chi pratica l'altra medicina non ha un atteggiamento di negazione verso le terapie allopatiche, anzi le integra grazie alla conoscenza di altri rimedi. Sono medici che vogliono poter disporre di uno strumento in più per curare il male, senza alcuna intenzione di rinnegare la medicina che hanno appreso nelle università italiane. Semmai è la medicina allopatica che da sempre ha un atteggiamento di superiorità, di chiusura e di esclusione verso ciò che non è "scientificamente spiegabile" attraverso i criteri tradizionali.
La omeopatia come anche la pet therapy sono difficilmente spiegabili attraverso i canoni classici e i protocolli standard, ma è innegabile che abbiano dato risultati positivi, magari in persone che non avevano trovato nessun tipo di giovamento con i rimedi della medicina classica. E allora perché negare loro la possibilità di usare anche questi rimedi? Il dibattito è aperto o almeno, mi auguro che lo sia.
La Nuova Ecologia, 20 settembre 2005