di Giuseppe Frangi In anteprima l'editoriale di Giuseppe Frangi sul prossimo numero di VITA in edicola da domani. "Il mare è placido e sembra fidato. Eppure loro non hanno avuto scampo: non sapevano nuotare" La foto, piccola e balenata solo su qualche sito internet, li mostra allineati, con un ordine quasi struggente, sulla spiaggia. Sono ragazzi, tutti intorno ai 20 anni, poco più poco meno. Nella stessa inquadratura si scorge la sagoma del peschereccio che li ha portati sin sulla soglia di un nuovo mondo. E' distante appena qualche decina di metri. Il mare è placido e sembra fidato. Eppure loro non hanno avuto scampo: non sapevano nuotare. La storia degli 11 ragazzi eritrei morti sulla spiaggia di Gela nella notte di un sabato di settembre (altri sono stati ritrovati in mare), è una storia di quelle che sfuggono a tutte le contabilità. Quanti erano gli uomini su quel peschereccio? Quanti altri sono morti, quanti si sono, per loro fortuna, dileguati nel nulla? Eppure questa loro storia propone in termini drammatici, in termini di civiltà, una questione chiave: come possiamo pensare di liquidare le storie di questi uomini come se non ci riguardassero? «Io li ho visti quegli undici ragazzi morti, e vederli cambia la prospettiva»: dice così nell'intervista rilasciata a Vita il sindaco di Gela, Rosario Crocetta. «La mia preoccupazione è stata quella di dare sepoltura ai morti. Io penso che la difesa dei nostri valori passi dall'accoglienza ai vivi e dal rispetto per i morti». Vedere cambia la prospettiva: nella sua semplicità è un'indicazione di metodo. Un antidoto vero a tutte le tentazioni di ideologie e a tutte le fiammate di fanatismo. Cambia la prospettiva, perché immediatamente ti senti implicato da quei corpi. Ti senti annodato a quelle storie. Diventa inevitabile chiederti perché fossero su quel peschereccio, cosa li avesse spinti via dalla terra in cui sono nati e sono vissuti sino ad adesso. E chiederti che cosa avresti potuto fare per loro. Che cosa si potrebbe fare per i mille altri che stanno percorrendo le loro stesse strade. Vedere cambia la prospettiva: il sindaco, non certo per calcolo ideologico, ha detto che la prima risposta sarebbe di dare ai sopravvissuti asilo politico. Chi di mestiere fa invece i calcoli, accamperà mille obiezioni. Ma nessuna obiezione sarà in grado di sciogliere quel nodo che lega le storie di quei ragazzi alle nostre storie. A meno di barare, di accettare per noi una disumanità che non fa rima davvero con civiltà. Certamente il sindaco di Gela non è in grado di dare soluzione globale ai problemi, ma certamente non li elude. E certamente ha suggerito un percorso umano. Può sembrare poco. Invece è tantissimo: perché nel mondo che viviamo, è proprio questa capacità di uno sguardo umano sulla realtà che disperatamente latita. E che inaridisce tutti i rapporti e le speranze. Eppure quest'indicazione di metodo offre a ciascuno anche una chance formidabile: infatti non vive per delega, come accade per le grandi scelte. Vive per scelta personale, per desiderio di condividere il destino dell'altro. Vive semplicemente grazie a uno sguardo, perché vedere cambia la prospettiva. La storia di queste giornale; le storie raccontate che di settimana in settimana fanno il suo "corpo" in fondo sono tutte declinazioni di quello sguardo. Sono piccoli accenti ma irriducibili di una passione che ci porta a desiderare e a impegnarci per un mondo diverso. Vita, 15 settembre 2005

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