di Gianluca Iazzolino
TEHERAN - Due Iran s'apprestano ad andare alle urne per le elezioni presidenziali del 17 giugno: quello dei giochi politici, dei veti del Consiglio dei Guardiani, delle bagarre giudiziarie e degli appelli degli ayatollah; e quello, mesto e rassegnato, della gente, soprattutto i giovani, che vedono il voto per designare il successore del presidente Mohammad Khatami come un'operazione di facciata che poco ha a che fare con la loro realtà.
Alla vigilia della tornata elettorale, il Consiglio dei Guardiani, organo di 12 membri nominato direttamente dalla massima guida spirituale, il Grand'Ayatollah Khamenei e dal parlamento, per giudicare l"'islamicità' dei candidati, ha mantenuto solo 8 delle 1014 candidature registrate. Le 90 candidature femminili presentate (per sfida, più che altro, perché l'esito era prevedibile) sono state respinte, suscitando le proteste del Nobel per la Pace Shirin Ebadi. Degli ammessi, quattro sono i conservatori, tre i riformisti, di cui due, il vice presidente ed ex-ministro dell'Educazione Mustafa Moin, capo fila del Fronte di partecipazione islamico dell'Iran, e Mehr Alizadeh, figura di secondo piano del partito di Khatami, riammessi solo per intercessione dello stesso Khamenei.
L'ottavo candidato è Akbar Hashemi Rafsanjani, veterano della Rivoluzione che nel '79 detronizzò lo Scià per instaurare la Repubblica Islamica, delfino dell'Imam Khomeini e già presidente dall''89 al '97. Rafsanjani, che anche dietro le quinte è una delle figure più influenti nella politica iraniana, è un conservatore pragmatico, favorevole a una maggiore apertura economica e alla distensione con l'Occidente, in primo luogo gli Stati Uniti, e ponte ideale tra gli irriducibili dei valori khomeinisti e i fautori delle riforme avviate da Khatami.
I primi sondaggi ufficiali lo danno al 35% delle preferenze ma l'incognita resta l'affluenza alle urne. L'atteggiamento del Consiglio dei Guardiani è un dejà vu di quello già adottato per le elezioni parlamentari del febbraio 2004, quando furono 2500 le candidature respinte, permettendo ai conservatori di espugnare il Majiis (parlamento), e si registrò un'astensione record tra i 40 milioni di elettori iraniani. La disillusione che regna nelle strade di Teheran alla vigilia del voto riecheggia così, amplificandola, la frustrazione di allora.
E' soprattutto la generazione con meno di trent'anni (i tre quarti della popolazione iraniana) a sentirsi sfiduciata nei confronti della politica. Le aspettative sorte otto anni or sono con la nomina del riformista Khatami si sono infrante contro il muro del blocco conservatore, e le timide aperture sociali (su diritti umani, parità di genere e libertà culturali) appaiono, oggi più che mai, semplici contentini. Khatami, che non può candidarsi per un terzo mandato, non lascia dietro di sé un'eredita credibile. Moin, il suo candidato riammesso in extremis, secondo gli analisti avrebbe fatto meglio a stare fuori dalla corsa elettorale: nel caso (remoto) di vittoria, sulla sua carica peserebbe l'ipoteca dell'appello religioso, rendendolo, agli occhi del suo elettorato, l'ennesimo uomo dei mullah.
Ma risposte chiare sul futuro del Paese non sono attese solo dagli iraniani: la comunità internazionale ha gli occhi puntati sulle ambizioni nucleari di Teheran. Stati Uniti e Paesi europei impegnati nei negoziati per bloccare il programma di arricchimento dell'uranio avviato dall'Iran si sono divisi sulle dosi di bastoni e carote da dispensare al regime degli ayatollah, più favorevoli, i primi, alla minaccia di sanzioni; i secondi, al rafforzamento di rapporti di collaborazione e partnership. Solo recentemente le trattative hanno raggiunto un punto di convergenza, mettendo sul tavolo la candidatura dell'Iran all'Organizzazione mondiale del commercio (Wto), il che sancirebbe la fine della sua condizione di paria internazionale.
Rafsanjani, legato alla potente lobby conservatrice dei bazari, i commercianti che storicamente tengono le redini dell'economia iraniana e sostenitori della rivoluzione khomeinista, potrebbe non dispiacere del tutto a Washington. Anche se in un'intervista radiofonica del 2001 aveva sostenuto che "basterebbe anche una sola bomba atomica per garantire l'equilibrio nell'area con Israele", questa vecchia volpe della politica iraniana ha lasciato intendere che sarebbe pienamente disponibile a discutere soluzioni che da una parte garantiscano il diritto nazionale a sviluppare fonti d'energia e dall'altra integrino il Paese nella comunità internazionale.
Ma ancora una volta, non è pensando alle centrali nucleari che molti giovani andranno (o non andranno) a votare. Preoccupa il tasso di disoccupazione al 25%, la precarietà dei diritti civili e democratici e la tendenza strisciante già ribattezzata "alla cinese": tanto mercato, poca democrazia.
Vita, 16 giugno 2005