Il "diritto delle città". L'UE dovrebbe dare forma e sostanza a quello che viene chiamato il "diritto delle città": perseguire obiettivi che consentano alle autorità locali che governano territori urbani complessi un'autonomia di governo e sperimentazione che superi anche i limiti legislativi nazionali e costituzionali, senza arrivare ovviamente a contraddirli. (Scopri di più su:
http://www.labsus.org/2015/09/unione-europea-per-lo-sviluppo-dei-beni-comuni/)
Fabio GiglioniLa crescente attenzione per il tema dei beni comuni ha permesso di sollecitare negli anni più recenti anche le istituzioni europee a esprimere una propria posizione in merito senza, tuttavia, ottenere grandi risultati. Finora le istituzioni europee hanno più o meno esplicitamente evitato di affrontare il tema, anche se
ora il Parlamento europeo, attraverso la costituzione di un intergruppo parlamentare, sta cominciando a svolgere una riflessione accurata sul tema attraverso consultazioni e approfondimenti di studio. Il nodo principale con cui pare tale organismo si stia misurando è sempre lo stesso: la difficoltà di rintracciare, specie in ambito giuridico, una nozione generalmente condivisa di beni comuni. Eppure, questa nozione intercetta molti istituti presenti in diversi paesi europei in cui l’uso di beni, materiali e immateriali, non è strettamente vincolato al dominio del proprietario.
Il problema è la prospettiva
È possibile, però, che – come spesso capita – il problema non stia nell’oggetto di osservazione ma nello sguardo dell’osservatore: se, infatti, si mettesse in dubbio che l’assenza di una nozione data costituisca un problema, ci si accorgerebbe che nuove prospettive da esperire si potrebbero aprire.
L’unità di ricerca di Trento, ad esempio, nel corso dei propri studi nell’ambito del progetto di ricerca di livello nazionale (PRIN),
Istituzioni democratiche e amministrazioni d’Europa: coesione e innovazione al tempo della crisi economica, ha assunto una nozione di beni comuni che è dinamica e non statica, considerandola un prodotto e non un dato. I beni comuni, secondo questa ricostruzione, sono l’esito di identificazione derivato da una relazione tra soggetti dotati di autonomia,capaci cioè di riconoscere, a partire dai bisogni da soddisfare, quei beni che, a prescindere dal regime proprietario, salvaguardano gli interessi di una comunità. Per questa ragione i beni comuni costituiscono il frutto di questo scambio partecipato tra soggetti autonomi (le istituzioni e i cittadini) ma, allo stesso modo, sono anche generatori di nuove relazioni e processi che perseguono interessi collettivi.Curare i beni comuni, infatti, significa rinnovare e rigenerare i processi democratici in cui le persone si riconoscono per progetti utili alla collettività.
A partire da questo dato che prescinde da una nomenclatura ufficiale valida sempre, l’Europa potrebbe scoprire di essere capace di dare un notevole contributo per i beni comuni che, per quanto detto fino ad adesso, significa anche un contributo per la rigenerazione delle democrazie statuali. Così, avendo detto che i beni comuni sono l’oggetto in cui gravitano relazioni tra più soggetti dotati di autonomia, dall’Europa è atteso un contributo per rafforzare l’autonomia dei soggetti che si trovano sul lato istituzionale dal momento che l’autonomia dei cittadini è questione che attiene all’esercizio delle libertà civili che sono ampiamente riconosciute dagli stati membri. Nel complesso il contributo che può essere dato dall’Europa è quello di rafforzare “spazi larghi” in cui le autonomie possono dispiegare la loro forza per la rigenerazione di pratiche democratiche.
Il contributo per le autonomie territoriali
In questo contesto è particolarmente avvertita l’importanza che l’Europa rafforzi soprattutto le autonomie degli enti territoriali infrastatuali perché è soprattutto a livello locale che si realizzano quelle relazioni utili all’identificazione dei beni comuni. Storicamente l’Europa ha fatto molto per lo sviluppo delle autonomie locali e dei territori: si può ricordare in questa occasione l’elaborazione della Carta delle autonomie, l’istituzione del Comitato delle Regioni, la cooperazione regionale, la costituzione dei siti di interesse comunitario e le zone di protezione speciale. Si tratta di esperienze nelle quali porzioni territoriali non necessariamente rappresentate da governi locali rappresentativi dei territori guadagnano spazi di autonomia per la cura di interessi generali. A dispetto di ciò non si può ignorare che negli anni più recenti le politiche pubbliche di austerità e di controllo della finanza pubblica hanno prodotto quasi ovunque un processo di accentramento che ha spesso finito per sconfessare queste aperture dell’Unione europea. Se dovessimo dire in sintesi quale dovrebbe essere il contributo richiesto alle istituzioni europee, sarebbe quello di “liberare” le istituzioni, e in modo particolare le amministrazioni locali, da limiti troppo stringenti, intendendo con questo non tanto allentare gli obiettivi di risanamento economico, visto che dominano da venti anni le politiche pubbliche, quanto dare la libertà di perseguirli nel modo che ritengono più opportuno. Questa opzione non è una scelta opportunistica, ma una condizione che si ritiene essenziale per superare la crisi senza disperdere l’enorme patrimonio civile, culturale e ambientale che contraddistingue i popoli europei. L’esperienza pratica ci dimostra che le privatizzazioni o le esternalizzazioni possono spesso essere soluzioni molto più costose per l’erario pubblico di pratiche partecipative ben congegnate che, oltretutto, sono in grado di generare processi virtuosi di rinnovamento democratico.
Esempi concreti
La richiesta è dunque di invertire il processo e di tornare a investire sulle autonomie rafforzando istituti già previsti, riesumando soluzioni cadute in disuso ma anche individuando una policy di lungo termine su cui investire.
Gli istituti già previsti che sono da confermare e rinforzare sono diversi. Alcuni esempi positivi sono: la disciplina dei nuovi Fondi strutturali con particolare riferimento alle politiche di coesione 2014-2020 e al concetto di sviluppo locale partecipativo contenuto nel Regolamento per i Fondi europei di sviluppo regionale quale condizione per l’esercizio degli stessi; l’ampliamento degli oggetti che possono giustificare gli aiuti di stato per realizzare obiettivi di interesse comune, nazionali ed europei (si fa riferimento all’ingresso del patrimonio culturale tra i motivi che possono legittimare gli aiuti di stato, nonché gli obiettivi collegati alla Strategia Europa 2020 che sostanzialmente consistono nella tutela rafforzata dell’ambiente e dell’educazione); un altro esempio sono le nuove direttive europee sugli appalti e sulle concessioni che investono direttamente su una maggiore discrezionalità delle pubbliche amministrazioni nella cura degli interessi pubblici. Si tratta di esempi virtuosi che possono essere richiamati perché alludono a un’idea di sviluppo in cui le autorità pubbliche promuovono politiche fondate sulla larga coesione e responsabilità sociale che si basa su iniziative private (non solo cittadini, ad essere sinceri) per finalità che superano gli interessi degli stessi promotori.
Tra gli istituti che occorrerebbe invece riprendere, perché caduti in disuso, l’attenzione alla rigenerazione urbana o alle aree svantaggiate che, per esempio, negli anni Novanta del secolo scorso era stata oggetto di attenzione nella valutazione degli aiuti di stato da parte della Commissione. Da questo punto di vista, la legittimazione di aiuti che vanno nella direzione di rigenerare città e spazi locali potrebbe dare un contributo a quanto detto finora. Nei tempi più recenti è stato adottato il programma Jessica (Joint EuropeanSupport for SustainableInvestment in City Areas) che favorisce gli investimenti di sviluppo sostenibile nelle città e che dunque va nella giusta direzione.
Il diritto transnazionale delle città
Più in generale e in via strategica l’UE si dovrebbe dare l’obiettivo di dare forma e sostanza a quello che viene chiamato il “diritto delle città”, ovvero perseguire obiettivi che consentano alle autorità locali che governano territori urbani complessi un’autonomia di governo e sperimentazione che superi anche i limiti legislativi nazionali e costituzionali, senza arrivare ovviamente a contraddirli. In questo senso si chiede alle istituzioni europee, già molto sensibilizzate allo sviluppo delle aree urbane (che peraltro è un altro aspetto culturale identificativo dell’Europa), di ampliare gli spazi di legittimazione con cui le città possono sperimentare politiche innovative di cura degli interessi generali. Così appare necessario rilanciare e attuare nel modo più rapido possibile l’Agenda Urbana Europea, che si è arrestata e, sul piano del diritto, disseminare norme condizionali come quelle dello sviluppo locale partecipativo nelle varie legislazioni. Le città, infatti, sono contesti complessi dove molti degli obiettivi europei (tutela dell’ambiente, dell’occupazione, della salute, obiettivi Europa 2020) sono davvero in gioco e per questo esse possono essere viste come un alleato per l’Europa, talvolta perfino utili a contrastare gli egoismi degli stati. Si creerebbe una dinamica interna agli stati in cui le autonomie locali sono in grado di rinnovare i processi democratici sulla base di un diritto transnazionale che lega le città e le aree urbane complesse tra loro, oltre che con gli ordinamenti nazionali, sulla base però di un incoraggiamento a perseguire politiche innovative e di coinvolgimento dei cittadini. In particolare, un ulteriore contributo dall’UE potrebbe provenire se introducesse accanto al concetto di sviluppo locale partecipativo strumenti legali idonei, elaborando ad esempio gli accordi o i patti di collaborazione civica.
Il nuovo ritorno all’antico
Queste strade sembrano avere il vantaggio di essere più facilmente percorribili di altre. Una definizione contenuta in un atto legislativo formale di bene comune, infatti, pur in via teorica possibile, si scontra con diverse difficoltà. Le ragioni sono molteplici: l’art. 345 TFUE che sancisce l’approccio neutrale alla proprietà dell’UE, rinviando di fatto alle legislazioni nazionali; la difficoltà di sintetizzare un concetto unitario per ordinamenti diversificati (basti pensare su questo alle differenze che ci sono tra common law e ordinamenti continentali); e, soprattutto, i beni comuni sono un concetto che si lega alla qualità della democrazia e questa resta ancora, per quanto fortemente condizionata, nelle mani degli stati nazionali.
E’ anche vero, però, che sarebbe utile iscrivere tutti questi strumenti entro una cornice culturale coerente che in questo caso potrebbe essere lo sviluppo del diritto delle città quale diritto transnazionale che, recuperando la tradizione del diritto europeo ricca di fonti, faccia rivivere il pluralismo giuridico iscritto in un più chiaro contesto di affermazione dei diritti fondamentali. Un noto studioso spagnolo, Alejandro Nieto Garcìa, ha parlato a tal proposito della creazione di “zone franche” in cui l’esperienza sociale e le pratiche di convivenza si impongono sulle costrizioni formali legalistiche senza che tuttavia questo presupponga una fuga dal diritto, ma semmai la costruzione di un diritto esperito, comunitario capace di essere più efficacemente adatto a soddisfare i bisogni reali.