Le associazioni di cittadini che decidono di prendersi cura del loro territorio, del loro ambiente, del decoro dei beni comuni, ecc., possono considerare queste loro “prestazioni” come forme (implicite) di pagamento di tributi e, per ciò stesso, ottenere dagli enti locali forme di esenzione o di riduzione del carico impositivo? (Scopri di più su:
http://www.labsus.org/2015/06/si-possono-ridurre-tributi-per-premiare-cittadini-attivi/)
Antonio Perrone
E’ curioso notare che il tema dell’utilizzo della fiscalità come strumento per premiare la partecipazione attiva dei cittadini, che sembra il prodotto di una moderna evoluzione del rapporto tra fisco e contribuente, potrebbe in realtà connettersi ad uno dei criteri fondamentali che hanno ispirato sistemi tributari nati più di un secolo addietro. Mi riferisco al criterio di “solidarietà”, sostantivo che in ambito fiscale si traduce con il termine “partecipazione”. Pagare il tributo, infatti, è “partecipare”; il contribuente paga perché “partecipa” alle spese pubbliche e perché ha un obbligo solidale di partecipazione alle spese pubbliche graduato sulla sua capacità economica (che nella materia fiscale diventa capacità “contributiva”).
Queste idee erano ben consolidate nelle menti dei nostri padri costituenti che, allorché si trovarono di fronte al problema di individuare il criterio di legittimazione all’imposizione, optarono decisamente per il criterio “solidaristico” (e, del resto, è noto come la nostra carta fondamentale sia un ideale “compromesso” fra istanze liberiste ed istanze solidaristiche). Venne così fuori quell’art. 53 che ancora oggi induce i docenti di diritto tributario ad insegnare ai loro allievi che le imposte altro non sono se non lo strumento per realizzarel’obbligo di partecipazione alla spesa pubblica, un obbligo chiaramente “solidaristico”. Dunque “fiscalità”, “partecipazione” e “solidarietà” sono facce di una stessa medaglia.
Possiamo, allora, dire che iniziative o provvedimenti normativi come quelli che vanno prendendo piede nel nostro paese (penso al
“Regolamento” redatto da Labsus insieme con il Comune di Bologna, che è stato fonte di ispirazione per altri comuni, ma penso soprattutto all’art. 24 del cd. decreto “Sblocca Italia”) e che comportano l’utilizzo dello strumento fiscale come una sorta di “controprestazione” per remunerare forme di “partecipazione attiva” dei cittadini, rientrano nel tradizionale concetto di “fiscalità” come “partecipazione”? O, capovolgendo i termini del rapporto, possiamo affermare che la “partecipazione” del contribuente può assumere anche la forma della prestazione personale? Per cui le associazioni di cittadini che decidono di prendersi cura del loro territorio, del loro ambiente, del decoro dei beni comuni, ecc., possono considerare queste loro “prestazioni” come forme (implicite) di pagamento di tributi e, per ciò stesso, ottenere dagli enti locali forme di esenzione o di riduzione del carico impositivo? In fondo, il rapporto, seppur invertito, potrebbe essere lo stesso: nel classico schema del tributo, il cittadino partecipa “economicamente” e lo Stato utilizza il sacrificio economico per fornire prestazioni di interesse collettivo; nello schema della “partecipazione attiva”, il cittadino partecipa con la prestazione di interesse collettivo e ottiene dallo Stato l’esenzione dal tributo. Si tratta soltanto di un diverso modo di intendere il tradizionale rapporto giuridico-tributo?
“Commutatività” ma non pattuizione
Ritengo di no. Il collegamento fra “partecipazione attiva” e premialità fiscale è assai distante dal concetto di “partecipazione” che è a fondamento dei sistemi tributari. Quest’ultima, infatti, è sì solidarietà, ma è solidarietà “obbligata” che, in quanto tale, è estranea ad ogni forma di “sussidiarietà”. Il rapporto giuridico-tributo nasce e si compie tutto nell’area pubblicistica, trova la sua fonte e la sua regolamentazione esclusivamente nella legge ed è ad esso estranea qualunque forma di “pattuizione” di tipo privatistico e, dunque, qualunque nesso sinallagmatico che possa individuare nel pagamento del tributo una forma di “controprestazione” per i servizi pubblici di cui il contribuente fruisce.
Neanche le cd. “tasse”, sebbene tradizionalmente ricondotte alla fruizione dei servizi pubblici “divisibili” e quindi al concetto di “controprestazione”, sfuggono da questo schema; in quanto il legame pagamento della tassa-fruizione del servizio non è regolato secondo schemi privatistici, ma soggiace pur sempre all’imperatività della legge. In termini concreti, non posso rifiutarmi di pagare un tributo sulla raccolta dei rifiuti perché non intendo fruire del relativo servizio (occupandomi personalmente della raccolta e dello smaltimento dei “miei” rifiuti); prova ne è che la tassa sui rifiuti non si paga in ragione (o solo in ragione) del quantitativo di rifiuti prodotti, ma sulla disponibilità dell’area suscettibile di produrli.
L’elemento che più di ogni altro caratterizza l’area della fiscalità, dunque, è la “coercitività” e la sua sussunzione nell’orbita pubblicistica. Tuttavia, in quest’ultima categoria di tributi (le tasse), che sono poi i cd. tributi “locali”, la commutatività (il sinallagma) innegabilmente esiste ed è nella ratio del tributo, che è giustificato proprio dalla possibilità di fruizione del servizio. Dunque “commutatività”, ma non pattuizione; controprestazione, ma non libero scambio. Un ibrido, tutto fiscale, che ha indotto gli studiosi della materia a definire questi tributi come “paracommutativi”: il tributo trova la sua giustificazione nello “scambio” (pago in quanto fruisco del servizio), ma la sua fonte non è privatistica (non è nell’accordo), è sempre nella legge. Da qui la coercitività delle tasse.
Fiscalità e sussidiarietà
Ebbene, proprio all’interno dei tributi “paracommutativi” è nato oggi l’“altro” aspetto della “partecipazione”, quello che, a mio modo di vedere, nulla ha a che vedere con la “partecipazione/obbligo”, ma che si coniuga come “partecipazione/spontaneità”. In questo caso il rapporto è ribaltato; non è lo Stato (in senso lato) che obbliga (con legge) il cittadino a partecipare, ma è il cittadino che spontaneamente partecipa e si attiva per svolgere compiti che sarebbero di competenza dello Stato (pubblica amministrazione) e chiede (può chiedere) allo Stato forme di remunerazione per questa partecipazione “attiva”. Che riflessi si possono avere, in questo caso, sulla fiscalità? E’ possibile utilizzare lo strumento della “riduzione” dei tributi per remunerare queste spontanee prestazioni? Se sì, quali tributi si prestano a questa forma di compenso?
Non dubito che si possa fare, anche perché è già stato fatto. L’art. 20 del Regolamento del Comune di Bologna prevede lo strumento, prettamente fiscale, delle “esenzioni ed agevolazioni, in materia di entrate e tributi” per remunerare le attività che si svolgono nell’ambito dei cd. patti di collaborazione, previsti dall’art. 5 dello stesso Regolamento; l’art. 24 del decreto “Sblocca Italia” prevede che “i comuni possono deliberare riduzioni o esenzioni di tributi” a favore di quei cittadini che realizzino interventi di pulizia, manutenzione, abbellimento di aree verdi, piazze, strade, ecc.La premialità della fiscalità, dunque, è già in atto. Quanto ai tributi idonei a realizzare queste forme di remunerazione, essi sono ovviamente quelli “paracommutativi”; è proprio la struttura di queste tasse che ben si presta. Si è detto, infatti, che il sinallagma ne giustifica la ratio, per cui si paga in quanto si fruisce di un servizio.
Ecco allora che, se il “servizio” lo svolge direttamente colui che sarebbe tenuto a finanziarlo (tramite il tributo), quegli può chiedere di non pagare il tributo o di pagarlo in misura ridotta. Non è un caso che l’art. 24 dello “Sblocca Italia” preveda che le riduzioni o esenzioni di tributi siano “inerenti al tipo di attività posta in essere” e che “l’esenzione e’ concessa ….. per specifici tributi e per attività individuate dai comuni, in ragione dell’esercizio sussidiario dell’attività posta in essere”. La riduzione dell’onere fiscale, dunque, è connessa alla tipologia del servizio ed è connessa all’attività sussidiaria svolta. Lo schema della controprestazione, che giustifica il tributo, giustifica altresì la possibilità dell’esenzione quando l’attività sussidiaria è ragguagliabile a quella che sarebbe finanziata con il tributo.
Un dialogo difficile
Possiamo, allora, concludere che fiscalità e sussidiarietà dialogano bene fra loro? Direi di no. Va chiarito, infatti, che i provvedimenti normativi o regolamentari che utilizzano il risparmio d’imposta per remunerare la sussidiarietà, hanno molto poco di “tributario”. In quei casi non si discute del tributo in quanto tale, dei suoi presupposti, della sua ratio, ecc., ma si discute del tributo come “onere”, come peso economico, o – forse più esattamente – come “moneta”, come “mezzo di pagamento”. Il comune, infatti, per remunerare prestazioni che riconosce di interesse pubblico “rinuncia” ad una parte del tributo, e quindi “paga” la prestazione con la riduzione d’imposta; ma nulla esclude che il comune possa pagare con altri mezzi e, probabilmente, la soluzione dell’utilizzo del tributo è da ricercare esclusivamente nella carenza di altre fonti di budget nelle casse comunali.
Il riferimento al tributo appare così “occasionale” e non necessitato: l’esenzione fiscale è solo uno “strumento” (probabilmente quello di più agevole utilizzo) che viene impiegato per remunerare la sussidiarietà. Se è così, siamo fuori dall’area “giuridica” della fiscalità; l’ottica è pur sempre pubblicistica, in quanto si parla comunque di pubbliche amministrazioni, ma mi sembra che non sia un “pubblicismo“ che attiene alla “natura” della fiscalità (e quindi alla coercitività, alla solidarietà coatta, ecc.), quanto piuttosto un’ipotesi di esercizio di attività privatistica da parte della pubblica amministrazione. Fiscalità e sussidiarietà, dunque, si muovono in parallelo, non in convergenza.
Questa soluzione (certamente opinabile) ha, paradossalmente, il pregio di consentire un largo uso degli strumenti propri della fiscalità (esenzione d’imposta, riduzione, ecc.) per remunerare la sussidiarietà. Proprio in quanto non si discute della “natura” del tributo, del suo presupposto, della sua “ratio”, ecc., vengono meno una serie di problemi che potrebbero fortemente limitare l’utilizzo strumentale della fiscalità a sostegno della sussidiarietà. L’obbligazione tributaria, infatti, è “indisponibile”, e – dunque – se parlassimo di tributi in senso stretto, non vi sarebbe alcuno spazio (giuridico) per poter disporre del loro gettito. Qui, invece, non si “dispone” del gettito, ma si “remunera” con il gettito (id est: con una riduzione del gettito) una prestazione che l’amministrazione riceve. Essere fuori dall’area della fiscalità significa, quindi, non subire i limiti della fiscalità. Se la sussidiarietà e la fiscalità si possono aiutare è proprio perché si muovono in parallelo.
Baratto amministrativo
Esiste, all’interno di questa “terra di nessuno”, uno spazio per il cd. “baratto amministrativo”? I comuni, se vogliono, possono chiedere al contribuente inadempiente di assolvere l’obbligo tributario mediante una prestazione di interesse collettivo? In questo caso, ritengo, non vi sarebbe più parallelismo ma una vera e propria invasione da parte della sussidiarietà nell’area della fiscalità, ed il “volto duro” di quest’ultima prenderebbe inevitabilmente il sopravvento. La possibilità di fruire di una prestazione personale in luogo del pagamento del tributo richiederebbe, infatti, una vera e propria disponibilità di quest’ultimo, per la semplice ed evidente ragione che non sembra possibile quantificare esattamente il valore monetario della prestazione personale e far sì che essa corrisponda esattamente alla tassa dovuta.
L’utilizzo della prestazione “in luogo” del pagamento, quindi, potrebbe certamente comportare una “rinuncia” a percepire una parte del gettito; rinuncia che, in questo caso, non è remunerativa di una prestazione fruita dall’amministrazione. Il principio dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria costituirebbe, quindi, un ostacolo difficilmente sormontabile. In ogni caso, penso che la soluzione alla questione di “legittimità” del c.d. “baratto amministrativo” venga dall’alto, e per l’esattezza da quella “riserva di legge” che l’art. 23 Cost. pone alle “prestazioni personali e patrimoniali”. Se i tributi si pagano con pecunia è soltanto perché la legge lo prevede: la prestazione “patrimoniale” tributaria non può essere imposta se non con legge. Ugualmente la prestazione “personale” è riservata alla legge. In mancanza di una specifica norma, pertanto, nessun comune potrebbe chiedere ad un cittadino, pur fiscalmente inadempiente, di pagare il tributo mediante lo svolgimento di un’attività di interesse collettivo. Insomma, mi sembra che il rapporto fra la fiscalità e la sussidiarietà si possa svolgere esclusivamente quando quest’ultima è tale, e cioè “volontaria”.
- Antonio Perrone è professore aggregato di diritto tributario italiano ed europeo presso il Dipartimento di Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali (DEMS) dell’Università degli studi di Palermo. Ha pubblicato due monografie (LE INDAGINI BANCARIE – CONTRIBUTO ALLO STUDIO DELLE PRESUNZIONI NEL DIRITTO TRIBUTARIO, Bari, 2009, pagg. 278; FATTO FISCALE E FATTO PENALE: PARALLELISMI E CONVERGENZE, Bari, 2012 pagg. 382) e saggi su riviste specialistiche in materia tributaria. E’ componente del comitato editoriale della rivista “Diritto e Processo Tributario” e del comitato di redazione della rivista “Osservatorio permanente della giustizia tributaria”. Nel 2013 ha conseguito l’abilitazione scientifica per la seconda fascia nel settore IUS 12 (diritto tributario).