Istituto B. Leoni: il 50% di italiani le vuole «liberare».
Un potentissimo e sorprendente urlo di ribellione contro le caste e il clientelismo professionale. Si può leggere così, e non senza sorpresa per l'ampiezza del risultato, quanto emerso ieri dal sondaggio dell'Istituto Bruno Leoni sulle liberalizzazioni in Italia. All'interno di un'analisi che ha affrontato sedici settori, arrivando a registrate comunque il maggiore progresso nella storia di questa rilevazione, effetto riconosciuto all'azione del Governo Monti, spicca un dato roboante dal sondaggio realizzato da Epoké tra il 10 e il 18 settembre a 800 soggetti "validi".
Ebbene, alla domanda posta su «quale settore sarebbe più utile liberalizzare introducendo più concorrenza o maggiore libertà di accesso?» la risposta preponderante è stata: gli ordini professionali. Oltre la metà degli intervistati (il 50,4%, ognuno aveva fino a un massimo di quattro risposte) ha indicato le professioni come target delle liberalizzazioni. Dietro di esse, «non emergono - si legge nella ricerca - altre categorie in maniera netta». Al secondo posto, con il 27,1% dei casi, si piazzano le ferrovie. Insomma, anche i treni sembrano rappresentare un problema di portata inferiore agli occhi degli italiani.
Questo dato e queste proporzioni sono un risultato di primissimo piano, nonostante i media e la stessa comunicazione dell'Istituto si sono concentrati sul dato aggregato (estremamente positivo) e su un'analisi dei settori infrastrutturali. La problematica delle professioni, infatti, è un punto cardine per un cambio di modello nel Paese. È già stato affrontato da ETicaNews, presentando un'analisi Bocconi firmata da Michele Pellizzari che indicava l'alto grado di familismo nazionale, ossia di passaggio da padre in figlio della posizione occupata. Ed è un tema che, per esempio, Roger Abravanel e Luca D'Agnese (in "Regole") ritengono connesso a una sventurata caratteristica italiana: «La nostra società - scrivono - è la più diseguale del mondo occidentale, perché la differenza tra i più ricchi e i più poveri è alta, a livello del mondo anglosassone, ma la mobilità sociale (la possibilità di cambiare livello di reddito col tempo e rispetto alla generazione precedente) è la più bassa».
Evidentemente, la percezione del problema sta diffondendosi. Non basta nemmeno, a placare le richieste, che il "settore professioni" abbia guadagnato ben cinque punti in termini di grado di apertura in proporzione ai Paesi più liberalizzati d'Europa (dal 47 al 52%). Un guadagno che «dipende essenzialmente - si legge nella ricerca - dal "pacchetto Monti" che integra le "lenzuolate Bersani", ampliando i margini di libertà nell'organizzazione ed esercizio dell'attività professionale. In particolare, incide sulla valutazione la rimozione dei vincoli residui all'esercizio della professione in forma societaria, con la possibilità di includere anche soci di capitale».
Nonostante i passi avanti, dunque, la pretesa di sciogliere le barriere corporativistiche degli ordini è altissima. Probabilmente, anche per la ritrosia dimostrata da alcune categorie rispetto agli interventi del Governo: si pensi solo che gli avvocati hanno deciso di impugnare le riforme davanti ai giudici amministrativi (il Tar del Lazio). E altre categorie ci stanno pensando. Ed è anche significativo che il "disturbo" maggiore sia provato tra i 18 e i 40 anni, quando la percentuale di coloro che vorrebbero liberalizzare le professioni arriva al 55 per cento.