Il futuro del fundraising in Italia? Potrebbe essere in 3D! Con questo
buon auspicio Luciano Zanin, Presidente di ASSIF e Direttore scientifico
di ConfiniOnline, augura a tutti un felice anno nuovo. (Scopri di più
su:
http://www.assif.it/notizie/assif-nazionale/112-il-futuro-del-fundraising-in-italia-potrebbe-essere-in-3d.html)
Buon
2016 da ASSIF. Come augurio a tutti i fundraiser del nostro Paese, ma
non solo per loro, anzi, un auspicio a tutti i donatori e a tutte le
Organizzazioni Nonprofit che operano in tutti i settori, quest’anno ho
pensato di condividere un punto di vista, una riflessione che spero
possa essere di una qualche utilità nel percorso che il fundraising
italiano ha intrapreso in modo deciso da una decina di anni e sulla
quale desidero mettere quello che ho imparato e (spero) di aver
compreso.
Passare da un sistema bi-dimensionale ad uno
tri-dimensionale, è come passare dall’idea di una terra piatta a quella
sferica, aggiungendo quindi il volume (qualità) alla “sola” superficie
(quantità).
Io penso che il fundraising, in Italia, sia un po’ a
questo punto, sicuramente per quanto concerne il fundraising
territoriale, locale, di comunità o di prossimità, come lo si voglia
definire, ma penso che questo valga anche per tutto il resto.
Mi
soffermo però sul primo aspetto perché è molto più vicino alla vita
delle persone e impatta in modo determinante, o potrebbe farlo, nei
sistemi di welfare, ma non solo, potrebbe essere determinante anche
nell’ambito ambientale, culturale, sportivo, dell’istruzione e finanche
in quello politico (aspettate a trarre conclusioni da questa
affermazione).
- Comunque sia, il fundraising sembra aver
lavorato fino ad oggi in due dimensioni nel nostro Paese: quella etica e
quella economica, cercando di farsi spazio “sgomitando”, ma rimanendo,
di fatto, sempre residuale rispetto al contesto complessivo nel quale si
trova ad operare, nonostante l’indubbia crescita che l’ha interessato.
Il
parallelismo con l’idea di Zamagni rispetto al ruolo del “dono gratuito
o autentico” nell’economia, viene quasi naturale1. D’altra parte
viviamo in sistemi interconnessi ed interdipendenti, non solo
materialmente, ma anche dal punto di vista cognitivo ed intellettuale,
quindi è logico aspettarsi che scuole o forme di pensiero che
interessano o influenzano settori diversi poi siano utilizzati come
schemi di riferimento anche in altri.
Il pensiero di fondo che,
con tutta la modestia del caso condivido, è che viviamo in una Società
complessa che adotta forme di organizzazione delle comunità e della
società che devono uscire dalla dicotomia Stato / Mercato per approdare
ad un sistema di economia civile. Io penso che anche il fundraising
debba uscire dalla “sua” dicotomia “etico-economia” per approdare ad una
legittimazione che vada oltre l’idea di solidarietà e oltre la
“semplice” redistribuzione di risorse; deve invece divenire un modo,
l’unico, in grado di attivare quelle prassi di “dono autentico” che
possono effettivamente mettere in campo, attraverso la sollecitazione e
la proposta ai donatori, quelle risorse necessarie, direi
irrinunciabili, per i bisogni presenti, ma soprattutto futuri, delle
nostre comunità.
La terza dimensione del fundraising, quindi, è
necessariamente una dimensione “politica”. Sia chiaro, non mi riferisco
al finanziamento dei partiti, ma invece al senso Aristotelico del
termine “l’amministrazione della polis per il bene di tutti”. Provo
però ad andare con ordine.
Il punto: un fundraising che si occupi del “dono gratuito” così come lo definisce il professor Zamagni.
Il
noto docente di economia definisce “carsico” il percorso del pensiero
dell’economia civile, o meglio la condivisione del pensiero, che per
vari decenni è scorso nel sottosuolo e ora da qualche anno fa capolino
in superficie considerato che il pensiero dominanti (economia di mercato
capitalistico) sta mostrando tutti i propri limiti.
Zamagni
spiega bene perché il concetto di “dono gratuito” sia oggi avversato sia
dai liberisti-utilitaristi che dagli statalisti. Non sto qui a ripetere
ciò che è già ben spiegato, ma mi viene naturale provare a verificare
se il fundraising “all’italiana” non stia seguendo lo stesso schema di
flusso.
Per i liberisti-utilitaristi, la filantropia è “solo” un
modo per redistribuire ricchezza e quindi anche il fundraising, vissuto
da questo punto di vista, diviene funzionale a questo pensiero, di fatto
è un metodo per redistribuire (un po’) di risorse.
Per gli
statalisti, che abbracciano invece l’idea solidaristica forte del
concetto che è lo Stato che deve farsi carico di ogni bisogno, prevede
per il “dono” comunque un ruolo residuale, al massimo di integrazione di
quello che la Pubblica Amministrazione non riesce a fare o del
“surplus” (in fin dei conti spesso ci si accontenta di dar da mangiare,
non è che si debba anche mangiar bene necessariamente).
Entrambe
le ipotesi non considerano quindi l’idea di un sistema in cui il “dono
gratuito”, quindi libero, produce reciprocità e riesce a far stare
insieme il bene proprio e il bene altrui. Quindi la domanda che si pone è
la seguente: quale ruolo del fundraising, e quindi dei fundraiser, in
un simile scenario? Evidentemente comunque marginale. Da questo lo
stimolo per cercare una ”terza via”, nella logica dell’economia civile,
che esca dalla gabbia nella quale anche il fundraising sembra essere
caduto: redistribuzione e solidarietà, null’altro?
D’altra parte
l’affermarsi, fin dalla fine del ‘700 di un certo pensiero di politica
economica che per 200 anni ha avuto la meglio, ha sicuramente influito
anche nell’idea stessa non solo del “dono”, ma del fundraising e di chi
pratica questo tipo di attività.
- Ci ritroviamo infatti con un
fundraising costituito soprattutto da “tecnicality”, sembra efficace
sotto il profilo della “produzione di denaro” (affermazione che
abbisogna del beneficio del dubbio, perché non ne abbiamo la
controprova), un po’ importato dal mondo anglosassone, che ha mutuato e
continua ad utilizzare strumenti tipici del mondo profit che derivano da
esperienze di marketing, tecniche di persuasione e, a volte, di
vendita.
Questi però sembra occuparsi esclusivamente di
redistribuzione, sposta risorse, ma spesso, anche se non sempre, non
produce un nuovo pensiero nel donatore, “semplicemente sposta”, ma nella
sollecitazione successiva dovrà, per così dire, ricominciare daccapo.
Il
dono viene quindi “strumentalizzato”, utilizzato per redistribuire
risorse, perdendo il suo potere più grande: la creazione e lo sviluppo
delle relazioni e di patrimonio di fiducia, rimanendo con ciò residuale,
marginale, relegato all’ambito dei fallimenti (dello Stato o del
mercato).
Stesso risultato, anche se con presupposti diversi, per
quanto concerne l’idea statalista-solidaristica. Nel mondo del welfare,
che si sta trasformando da “state” a “community” o “di prossimità” che
dir si voglia, vi è una fortissima, anche se non sempre consapevole,
resistenza all’idea di considerare il “dono gratuito” come uno degli
attori protagonisti. L’ideale che lo Stato debba provvedere a tutto e a
tutti, unito talvolta al timore o alla paura che l’affermarsi del dono
“libero, partecipato e reciproco” possa minare l’idea stessa di welfare
diffuso e universale e che la possa trasformarsi da “diritto” a
“mercato”, con il rischio quindi di escludere intere fasce di
popolazione, fa sì che l’avversione a forme diverse di organizzazione
dei servizi e allocazione delle risorse, non solo sia osteggiata, ma
nemmeno concepita, e con essa la partecipazione, fin dalla
progettazione, dei relativi servizi di welfare, affidati, ai soli
operatori di settore.
Un sistema quindi che prevede soggetti che
definiscono bisogni, soggetti che producono servizi, soggetti che li
erogano e soggetti che li pagano, il tutto senza, o quando va bene con
scarsa partecipazione dell’”utente”.
Se quindi l’idea di
organizzare le comunità in modo diverso da come si è fatto finora, fosse
concepita e condivisa, allora il “dono gratuito” potrebbe avere un
ruolo di primaria importanza e con esso, di conseguenza anche il
fundraising. Ciò significa che questi dovrebbe essere quindi in grado di
assurgere ad un ruolo più “politico” nel senso che non si dovrebbe più
limitare a coprire inefficienze della pubblica amministrazione, non si
dovrebbe più rassegnare a redistribuire del denaro, ma dovrebbe invece
aspirare ad un ruolo quasi, anzi, sicuramente, pedagogico/educativo.
In
questo senso si può sicuramente interpretare anche la frase di Hanry
Rosso rispetto alla definizione del fundraising: “l’arte di insegnare la
gioia di donare”.
- È questa la terza dimensione del
fundraising, quella che io intendo come “politica”, che non solo può
incidere in modo positivo nell’organizzazione di una comunità “ex-post”
redistribuendo risorse, ma può dare un contributo decisivo all’idea
stessa di comunità “ex-ante”, stimolando ed attivando risorse
economiche, di tempo, di competenze e relazionali presenti, ma
inutilizzate e catalizzandole dove servono e possono dare il maggior
contributo in termini di impatto positivo.
Una dimensione,
quella politica, che può contribuire moltissimo a forgiare la stessa
identità del fundraising e quindi anche del fundraiser che allora sì che
diverrebbe un “patrimonio” per le comunità che serve (non
necessariamente limitate dal punto di vista geografico o dimensionale)
che stimola e sollecita “investimento nel bene comune”.
Inoltre,
avendo il dono anche un ruolo di “creatore” di fiducia, di sviluppo del
capitale sociale e quindi di generatore di un fattore di produzione
fondamentale anche per lo sviluppo economico, potrebbe dare un apporto
fondamentale se considerato in un contesto “3D”.
Nelle nostre
società vi è l’indubbia necessità di continuare di creare e “manutenere”
reti, sperimentare nuove forme di governance, costruire alleanze e
relazioni per rilanciare anche l'economia, ma vivere il dono è
un’attività faticosa, che abbisogna di un costante impegno e questo
potrebbe, anzi dovrebbe essere anche il ruolo “generativo” dei
fundraiser che avrebbe finalmente un riconoscimento “dalla base” di
fatto e non di diritto, l’unico in grado di resistere e amplificarsi nel
tempo.
Infine, una simile partecipazione dei donatori, ma nello
scenario ipotizzato, coincidenti con la gran parte dei cittadini, si
otterrebbe un maggiore grado di democrazia, anche in questo caso intesa
in senso generale, e agevolerebbe l’applicazione del principio di
sussidiarietà previsto dalla nostra stessa – lungimirante –
Costituzione.
Chi potrebbe spingere questo cambiamento?
Rimane
una domanda ancora all’orizzonte: chi dovrebbe o potrebbe adoperarsi
per far sì che un simile disegno si possa sviluppare e si compia? Gli
accademici e gli studiosi indicano possibili vie, la politica, in questo
caso sì intendo la classe politica e dirigente, dovrebbe creare le
condizioni affinché i processi e le innovazioni possano avvenire e
andare verso le direzioni auspicate, ma chi sono coloro che possono
concretamente attivarsi per diffondere l’idea del “dono gratuito” in
modo che questa raggiunga una massa critica sufficiente e una
condivisione tale da farla entrare nel “patrimonio culturale delle
comunità” e quindi influenzare in modo positivo le decisioni delle
stesse ex-ante?
Io ritengo che i fundraiser, in determinate condizioni, possano esercitare un ruolo importante in questo senso, in due modalità:
-
Divenendo essi stessi “fundraiser 3D” e quindi non limitandosi più
alla “semplice” attività di raccolta (redistribuzione) di denaro;
-
Portando nelle organizzazioni nonprofit, come fosse un innesto
culturale, il pensiero del “dono gratuito” modificando, efficientando,
rendendo sostenibile il ruolo del Terzo Settore che non sarebbe più
“Terzo”, ovvero, come spesso accade un “mero” fornitore di servizi per
la Pubblica Amministrazione, ma diverrebbe un protagonista in grado di
co-operare su obiettivi comuni, condivisi e partecipati.
In
entrambi i casi, il fundraiser assumerebbe non solo una funzione
professionale, ma “pedagogica” da esercitare sia nei confronti di
soggetti singoli – le persone - che di soggetti collettivi – Pubblica
Amministrazione, Organizzazioni Nonprofit e Imprese for Profit.
- Il
fundraiser che auspico, per rimanere nella metafora del fiume carsico
relativamente al pensiero dell’economia civile, è un una persona audace,
coraggiosa, umile, consapevole, avventurosa, preparata, passionale, che
accetta il rischio, che ha fiducia nel prossimo e che quando quel fiume
riaffiora, è in grado di riconoscerlo, di valutarne la portata e di
salire su un gommone (il fundraising) per fare rafting, finché lo stesso
alveo si allarghi, le acque si plachino e divenga una via d’acqua
dolce, in cui le comunità possano navigare e svilupparsi.
Felice 2016.
Luciano Zanin