Il 14esimo Rapporto Censis-Ucsi sulla comunicazione. (Scopri di più su: AzioneCattolica.it)
  • di Alberto Ratti. Componente del Centro studi dell’Azione Cattolica Italiana
Il 14° Rapporto Censis-Ucsi sulla Comunicazione – intitolato “I media e il nuovo immaginario collettivo”, realizzato con il contributo e il sostegno di Facebook, Mediaset, Rai, TV2000, Wind/Tre – fotografa un Paese nel quale «i new media digitali non solo hanno ridefinito i nostri orizzonti spaziali e temporali, le nostre attese e priorità, ma hanno anche contribuito a ricodificare di fatto il rapporto con la realtà, influenzando la formazione dell’immaginario collettivo, mutando percezioni e narrazioni dominanti: i valori di riferimento, i simboli, le icone, i miti della contemporaneità, insomma lo spirito del tempo». (Per approfondire: www.censis.it e www.ucsi.it)

Nonostante il racconto comune e i messaggi che spesso vengono veicolati dalla politica, dal rapporto emerge con evidenza come tra i fattori ritenuti più centrali nell’immaginario collettivo italiano vi sia il posto fisso con il 38,5%, seguito dai social network, dalla casa di proprietà e dallo smartphone: un mix di vecchio e nuovo che caratterizza la nostra società e il nostro vivere.

Dalla ricerca, poi, si evince come il 75,2% degli italiani utilizzi internet, mentre lo smartphone sia posseduto dall’89,3% dei giovani. WhatsApp, Facebook e YouTube risultano essere le piattaforme preferite, ma comincia a decollare anche Instagram. Infine, si sono spesi 22,8 miliardi di euro nell’ultimo anno per cellulari, servizi di telefonia e traffico dati.

La ricerca mostra come nell’arco di dieci anni, grazie alla diffusione delle tecnologie digitali, la trasformazione dei media tradizionali abbia provocato un cambiamento così profondo da non poter essere previsto né guidato. Queste alcune delle sottolineature che emergono dal rapporto: innanzitutto vi è stata una personalizzazione nell’impiego dei mezzi di comunicazione che ha provocato una diffusione su larghissima scala di piattaforme, giornali, strumenti di informazione che hanno affiancato i tradizionali canali della comunicazione professionale; con l’avvento dei social, poi, gli studiosi hanno cominciato a parlare di era biomediatica, quella cioè caratterizzata dalla condivisione delle proprie biografie e di un individualismo alquanto accentuato; questa nuova fase, infine, ha come sua caratteristica centrale, quella cioè «della primazia dello sharing sul diritto alla privacy: l’io è il contenuto e il disvelamento del sé digitale è diventata la prassi comune». Lo smartphone è diventato l’oggetto di culto; la potenza di internet e dei social network, con cui filtrare personalmente il mondo esterno e condividere l’espressione di sé (il selfie ad esempio) sono l’emblema dell’autoreferenzialità individualistica.

Tra gli effetti causati da tutto questo, vi è l’affermazione nel corso del tempo di una generalizzata disintermediazione, sia in ambito economico (pensiamo all’e-commerce e a tutte le piattaforme di acquisto online, senza che ci debba più essere un luogo fisico perché avvenga uno scambio commerciale) sia in ambito politico (utilizzo della Rete, bassa partecipazione alla vita collettiva e alle attività dei partiti) che ha però portato come conseguenza non felice quella di una perdita di contatto con la propria comunità di riferimento e a un individualismo incapace di tessere rapporti e relazioni fra le persone. Il digitale e il virtuale sembrano sostituirsi lentamente all’incontro e alla relazione fra due o più persone, oltre che semplificare alcuni passaggi.

Come utilizzare in maniera sana e positiva strumenti certamente utili e di cui oggi non possiamo più fare a meno? Come ricostruire una cultura dell’intermediazione dove questo è necessario? Come non lasciare che la democrazia e i suoi processi vengano totalmente disintermediati dalla tecnologia e dai nuovi media?

I nuovi servizi (e-commerce su tutti) vengono promossi dai clienti per il loro carattere innovativo (il 59,1% degli italiani riconosce loro il merito di aprire continuamente nuove strade all’innovazione) e perché consentono di risparmiare tempo e denaro (54,1%). La preoccupazione maggiore, però, resta l’impatto reale dell’app economy sui posti di lavoro: secondo il 44,7% degli italiani non crea nuova e vera occupazione. È davvero questa la società che sogniamo per il nostro futuro?

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