L’articolo di Vittorio Rinaldi, antropologo, docente universitario, già Presidente del Consorzio Altromercato, costituisce un importante contributo al dibattito sulle modalità di concretizzazione di dispositivi di sostegno al reddito in Italia. Il saggio parte dall’assunzione della crisi del lavoro salariato, su cui ha fatto perno l’edificazione del welfare e, in generale, del diritto, dalla modernità fino al novecento. (Scopri di più su: Labsus.org)
I processi di automazione e di digitalizzazione, aprendo possibilità produttive inedite, hanno determinato una perdita di centralità del lavoro salariato, mettendo in crisi il fattore cardine della cittadinanza moderna.


Reddito di inclusione sociale o reddito civico?

Se il reddito di inclusione sociale annunciato dal governo Gentiloni costituisce una misura condizionata, finalizzata all’inclusione lavorativa delle persone in difficoltà, il reddito “civico” proposto dall’autore fa i conti con le specificità del tessuto produttivo italiano (e non solo), immaginando delle forme diverse di inclusione, al di là del lavoro salariato entro un mercato profondamente cambiato. I presupposti della proposta sono molto interessanti, perché mettono in discussione l’approccio astratto con cui abitualmente si considerano le categorie di lavoro e occupazione. Di fronte ad una produzione diffusa, che include profili eterogenei eccedenti rispetto al paradigma della subordinazione fondato sul rapporto salariale, ma anche forme di soggettivazione che si sviluppano al di fuori dell’obiettivo della remunerazione (pensiamo alle nuove forme di valorizzazione privata nell’ambito dei social network, delle piattaforme digitali etc.), nell’ambito di un mercato trans-nazionale, che si sviluppa oltre il potere di regolazione dello stato, l’obiettivo dell’aumento dell’occupazione non può che essere raggiunto a prezzo di una sua ulteriore degradazione.


In merito alla proposta: originalità e punti di forza

In questo quadro, l’autore dell’articolo prova ad immaginare “un nuovo ‘ruolo pubblico’ che sappia coniugare in sé i benefici dell’intervento statale a favore delle persone disagiate con la contestuale necessità di valorizzarle socialmente e professionalmente, evitando di ridurle alla sgradevole condizione di casi umani cronicamente assistiti e pietosamente dipendenti dall’elemosina collettiva”.

Così, il soggetto di riferimento è “una figura che invece di occuparsi della produzione di beni e servizi a cambio di un salario, come avviene normalmente nel caso dei lavoratori, riceva dall’Ente pubblico un reddito civico a cambio di prestazioni continuative erogate in tutti quegli spazi interstiziali della cura delle persone e dei territori che la produzione remunerata di beni e servizi lascia scoperti; e che dunque può in tal modo inserirsi come attore protagonista di un sistema di welfare generativo e da tale posizionamento ricavare quell’identità, quella dignità e quel ruolo sociale che il solo status di percettore di sussidio non gli garantiscono”.


Per proseguire la riflessione: aspetti di criticità

L’articolo apre un terreno di riflessione e confronto importante. Innanzitutto è fondamentale definire in che modo il dispositivo possa differenziarsi rispetto ai lavori socialmente utili. Il carattere condizionato del dispositivo rischia di ridurre i margini di iniziativa dei soggetti, costringendoli entro posti e mansioni predisposte dagli enti locali. Nell’ambito del dibattito attorno al reddito di base il carattere incondizionato è assunto come fattore fondamentale ai fini del riconoscimento della possibilità di autodeterminazione dei soggetti. Se col reddito civico si vuole incoraggiare la possibilità di un welfare “generativo”, radicato nelle esperienze “dal basso”, al di là di una visione esclusivamente “statualista” del reddito, sarà importante definire quale sia il ruolo del potere pubblico e quale quello dei soggetti generatori di welfare, perché l’azione di questi ultimi sia realmente libera e creativa. Per questo è necessaria una riarticolazione del potere pubblico, che deve cedere parte delle sue prerogative riconoscendo la possibilità, da parte dei soggetti, di essere parte attiva nell’immaginazione e nella messa in atto di azioni di condivisione, cooperazione, inclusione sociale etc.

In questo quadro, il reddito di base può essere inteso innanzitutto come un dispositivo di liberazione universale dei soggetti dalle condizioni imposte da un mercato che sempre più diffusamente è sinonimo di esclusione e di sfruttamento. Al contempo, esso può incoraggiare lo sviluppo di progetti di mutualismo, solidarietà, generazione di beni comuni etc., configurando una sorta di welfare “dal basso”, oltre il pubblico e il privato. A tal fine sarà necessario definire i modi in cui rendere possibile l’interazione fra il pubblico e quei pezzi di soggettività che vogliono essere protagonisti di tale processo, favorendo libertà di auto-organizzazione e autonomia nella definizione degli obiettivi. Il reddito, in questa chiave, non è solo il riconoscimento della dignità delle persone, ma un grimaldello che scardina l’organizzazione mercantile dei rapporti sociali e scommette sui soggetti come motori del cambiamento.

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