La città è stata motore della civiltà europea e costituisce una fonte di creatività e sviluppo senza eguali, in cui è possibile rintracciare l’origine di molte peculiarità sociali, economiche e politiche che ancora oggi caratterizzano le società del nostro continente. (Scopri di più su: Labsus.org)
La città è un organismo complesso che fin dalla più remota antichità ha rappresentato il luogo della socialità organizzata e del progresso civile e politico. Da sempre, sulla base di comuni interessi e necessità, popolazioni stanziate su territori circoscritti hanno sentito il bisogno di formalizzare e strutturare la loro convivenza finalizzandola al proprio mantenimento e perfezionamento. Come comunità di scopo, la città è un laboratorio sociale, politico ed economico in cui gli abitanti-cittadini hanno sperimentato insieme forme diversificate di convivenza, tutte comunque fondate su un patto civico che ordina e organizza componenti e risorse domestiche ai fini dell’armonia interna e della collaborazione sociale, dell’autonomia e del bene comune. Fin dalle origini, la città ha reso possibile questo ordine, non senza attriti e compensazioni, anche grazie al principio di sussidiarietà che con il sistema dei patti giurati ha fornito il criterio “naturale” su cui si è edificata e organizzata la società urbana nella storia europea.


Dalla comunità “naturale” alla società “politica”

Aristotele nella sua Politica descrive il sistema della città-Stato ateniese in termini di sussidiarietà. È tra i primi a individuare nella città, “guardando al modo in cui le cose nascono dal loro principio”, un sistema naturale di “alleanze” fra diverse unità socio-territoriali caratterizzato da forme coordinate e limitate di mutuo intervento e di cooperazione. La città, come comunità naturale, si organizza per prossimità dal basso in senso verticale sulla base delle micro-autonomie (famiglia, tribù, villaggio) in stretta relazione con il principio di autosufficienza, di solidarietà e di responsabilità collettiva. Autonomia in senso greco è perciò da intendersi come il diritto delle unità minori di “autodeterminarsi” in seno e in relazione a quelle maggiori per via di graduali associazioni nel complesso comunitario della città. Nasce così la società politica che attende all’esigenza di regolamentare il diritto ad agire delle unità minori nell’interesse comune e quello di essere sostenute collettivamente nello sforzo di autodeterminazione. Nasce anche l’idea di un fine cui le parti del tutto tendono e contribuiscono a realizzare: l’armonia sociale. In tal senso, la città è un organismo olistico e una comunità autonoma di destino di tipo naturale dove però si afferma la volontà della ragione che giustifica e indirizza la vita sociale. Secondo Maritain “comunità” e “società” sono entrambe “realtà etico-sociali veramente umane e non solo biologiche”, ma se nella prima prevale l’opera della natura, nella seconda prevale quella della ragione e un più stretto legame alle attitudini intellettuali, spirituali e morali dell’uomo.

Aristotele non usa il termine sussidiarietà, che allora era ancora da venire, tuttavia raffigura una società arcaica che si determina per sussidiarietà, inizialmente su principi biologici, poi economici e infine socio-culturali e politici. Egli appoggia la propria riflessione su una concezione antropologica della socialità che tende a integrare e dosare individualismo e forme di solidarietà empatiche e funzionali. Esiodo annoverava tra gli elementi essenziali della comunità naturale “la casa, la donna e il bue che ara”, dove il trittico sta a indicare la terra su cui si vive, la procreazione e il sostentamento; in altre parole l’essenza del nucleo familiare. Ma questo, come l’individuo isolato, non è autosufficiente e non garantisce la sopravvivenza e cerca di associarsi ad altri gruppi omologhi formando unità più ampie come i villaggi. “La comunità perfetta di più villaggi costituisce la città”, l’entità socio-politica che per Aristotele garantisce l’autosufficienza e che “sorge per rendere possibile la vita e sussiste per produrre le condizioni di una buona esistenza”. In tal senso la città è un’istituzione naturale che ha lo scopo di realizzare le molteplici comunità che la compongono, ma è anche un’istituzione positiva in quanto grazie alla legge è principio di ordine a se stessa e parte di un ordine superiore e universale.


La città nel medioevo e nella prima modernità: ascesa e declino della sussidiarietà

Aristotele si ferma alla città come sistema compiuto di convivenza civile che gli stoici, ancora in età ellenistica e imperiale, continuavano a considerare un modello insuperato retto da due principi fondamentali: l’autonomia data dall’accettazione di leggi comuni e la prossimità del vivere nello stesso luogo. Tuttavia le dimensioni dei nuovi imperi – da quello romano a quello medievale di Carlo Magno fino a quello germanico rinascimentale di Carlo V – supera l’estensione urbana e tende a ordinare le città in nuovi e più complessi sistemi di potere, riducendone gradualmente l’autonomia. Spesso gli imperi nascono da conquiste che non cancellano le esperienze di autonomia civica precedente o da accorpamenti spontanei di città autonome che per esigenze espansive e di difesa si organizzano in senso unitario, riproponendo all’esterno l’esperienza dei patti giurati. Nel Medioevo questi processi si incrociano con il frazionamento feudale e i tentativi egemonici di re e imperatori che vogliono le città soggette al loro dominio. Nascono così leghe fra città e comuni come in Italia, a partire dall’XI e XII secolo, o sul Baltico e nelle Fiandre, fra il XIII e il XV secolo. Ci troviamo di fronte a un processo di aggregazione federale dal basso che ha nella sussidiarietà verticale la propria ragion d’essere. Come nella città la famiglia e i gruppi sociali hanno più possibilità di crescere e svilupparsi in armonia con il tutto, così una lega di città offre migliori opportunità di difesa e maggiori capacità di rispondere ai bisogni collettivi. In Europa il XVI secolo rappresenta un momento di equilibrio fra la tensione orizzontale della sussidiarietà, rivendicata dalla libertà di autonomia di città e principati, e quella verticale che risponde all’esigenza unitaria del Sacro romano impero.

La modernità però ha messo in crisi questo sistema, complice una serie di eventi, tra cui la Riforma protestante e la nascita delle monarchie nazionali. Questi nuovi soggetti hanno contribuito a mutare il sistema politico europeo, ponendo in secondo piano la città come centro tradizionale della vita e dell’attività politica. L’emergere delle grandi monarchie, il formarsi dello Stato moderno e burocratico e lo sforzo dell’Impero di mantenere l’unità politica e religiosa dell’Europa hanno concorso ad alterare l’idea della sussidiarietà come processo armonico di organizzazione umana fondato sull’autonomia e la responsabilità. Althusius è l’ultimo dei grandi teorici di un sistema immaginato per conciliare le due anime della sussidiarietà, che vede al centro la città come luogo privilegiato della vita sociale e politica. Nel XVII secolo, il “sindaco” di Emden descrive un sistema gerarchico di alleanze (patti) dal basso fra diversi soggetti (famiglia, corporazioni, città, province) che collaborano con pari responsabilità e nell’interesse generale ad accrescere la res-publica chistiana, intesa come bene comune, senza derogare alla propria autonomia. La città di Althusius conteneva sia forme di sussidiarietà orizzontale, che attribuiva ai corpi intermedi il ruolo di congiuntura fra privato e pubblico, sia verticale, per cui la città stessa era parte autonoma di un sistema politico più articolato proiettato verso l’alto. Negli ultimi tre secoli, lo Stato moderno accentrato e nazionale ha contribuito a spezzare questa relazione organica e funzionale fra i due piani della sussidiarietà, comprimendo la prima con lo Stato burocratico e riducendo la seconda a strumento di ingegneria istituzionale per la distribuzione di competenze dall’alto.


La città oggi e la riscoperta della sussidiarietà come valore

Tra Otto e Novecento i due orientamenti delle sussidiarietà seguono in Europa strade separate: la prima è ripresa con successo dalla Chiesa cattolica che ne fa un principio essenziale della propria dottrina sociale; la seconda sopravvive in alcune realtà “federali” extraeuropee come gli Stati Uniti o isolate come la Svizzera con la sua millenaria tradizione di comuni e città libere. Tuttavia, anche se oscurata dalla prevalenza dello Stato nazionale moderno, forte di un efficiente apparato burocratico, la città conserva la sua insopprimibile vocazione all’autonomia come espressione organica della vita sociale. La città resta la comunità di prossimità, costituita da un insieme eterogeneo e plurale di comunità più piccole in cui fermenta la vita intorno a spazi e beni condivisi che si legano all’esperienza esistenziale e relazionale di ogni uomo. Le mura domestiche che ricordano gli affetti e l’infanzia, il cortile in cui si gioca da bambini scoprendo l’amicizia, la scuola dove si impara a “comunicare” e a sognare il futuro insieme agli altri, la piazza, le strade e i caffè dove ci si ritrova a conversare e a scambiare idee e progetti, la fabbrica, gli uffici, l’università e gli infiniti luoghi in cui si lavora e si impara a condividere. La città è la realtà più umana e concreta perché vive di relazioni ed è il risultato di un insieme articolato, dinamico e creativo di “compiti svolti insieme”, come la stessa parola latina “comune” indica. Tornando ad Aristotele che guardava “al modo in cui le cose nascono dal loro principio”, è facile cogliere come questo terreno sia quello originario della sussidiarietà – principio essenzialmente relazionale –, primariamente orizzontale, quindi, e solo poi verticale, per ampliarne ed estenderne quasi artificialmente le caratteristiche virtuose.

Negli ultimi decenni, grazie alla combinazione fortunata di fattori diversi, la sussidiarietà orizzontale è tornata dal passato prima come concetto poi come lievito capace di far pulsare nuovamente la “libertà attiva” nelle nostre città, smuovendo energie partecipative, promuovendo alleanze fra amministratori e amministrati, stimolando inedite forme di organizzazione sociale e di sviluppo urbano. In Italia, alcune iniziative legislative e poi l’ultima riforma costituzionale hanno incoraggiato i cittadini attivi a riappropriarsi delle mura e dei beni comuni per viverli e dar loro un’anima, facendo proprio il principio di sussidiarietà con l’art. 118, ultimo comma. Un fenomeno che già Cattaneo aveva colto nella sintesi organica fra urbs (spazio) e civitas (comunità), filo conduttore della storia italiana ed espressione di bellezza civica. Si tratta di un percorso di riappropriazione non solo di spazi urbani ma anche di un diritto, quello alla città. Ciò contribuisce a ravvivare la democrazia attraverso una partecipazione responsabile, diretta e concreta che si manifesta nella libertà del fare e nell’opportunità della condivisione. Tocqueville stesso esaltava la tradizione di autonomia delle città e intravedeva in esse sprazzi di vera democrazia, quando riferendosi allo “spirito comunale” della Nuova Inghilterra, affermava che la sovranità del popolo nel comune non è solo “uno stato antico ma uno stato originario”.

Oggi sempre più la città può divenire, anche grazie alle nuove disposizioni normative – e l’antico comune di Bologna torna oggi ad esserne un chiaro esempio –, il luogo della libertà creativa in cui ogni uomo, partecipando alla definizione dell’interesse generale attraverso la cura dei beni comuni urbani, può rafforzare la democrazia e aspirare alla propria realizzazione personale e alla felicità sua e dell’intera comunità. La città, come scriveva Aristotele, non “si costruisce semplicemente perché i suoi membri possano vivere, ma perché possano vivere bene”.

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