Queste riflessioni sono state maturate anche grazie a un proficuo confronto con Felice Scalvini, Assessore alle Politiche per la Famiglia, la Persona e la Sanità del Comune di Brescia. (Scopri di più su: Welforum.org)
Una delle domande che spesso si sentono negli incontri pubblici sulla riforma del terzo settore è “Cosa cambia, quali sono le novità, rispetto al rapporto tra terzo settore e pubbliche amministrazioni?”

Per rispondere è utile ripercorrere alcuni passaggi fondamentali di questa relazione, combinando attenzione per gli aspetti giuridici e per il clima culturale in cui essi sono maturati.

All’inizio degli anni ottanta la cooperazione sociale muoveva i suoi primi passi; talune esperienze di cooperazione che oggi definiremmo “di inserimento lavorativo” davano vita ad iniziative imprenditoriali per l’integrazione degli ex degenti degli ospedali psichiatrici proponendo ad esempio attività di pulizia e manutenzione di edifici pubblici (ad iniziare dagli stessi ex manicomi); oppure per gestire in modo continuativo e sempre più professionalizzato servizi socio assistenziali per minori, anziani o disabili sino a quel momento realizzati in forma semi volontaria.

Come regolare questi rapporti, che da una parte comportavano l’utilizzo di denaro pubblico con le regole che ciò implica, dall’altra riguardavano un rapporto di cui era chiara la non omologabilità alle ordinarie relazioni di fornitura?

E, dagli anni ottanta sino a giorni molti vicini, tanto giuridicamente, quanto culturalmente, la risposta è stata cercata nell’equilibrio e nella sintesi tra due istanze: quella della trasparenza e imparzialità della pubblica amministrazione e quella della peculiarità delle relazioni con il terzo settore; o per esprimerlo con altre parole, tra competizione (la PA sceglie il fornitore che assicura migliori condizioni) e cooperazione (PA e Terzo settore, omologhi per finalità, instaurano rapporti collaborativi per un obbiettivo comune); o ancora, per richiamare principi ancor più generali, tra marcato e sussidiarietà.

Così, negli oltre trent’anni di storia dell’imprenditorialità sociale nel nostro Paese, abbiamo visto da una parte la tendenza ad accostare le relazioni tra enti pubblici e imprese sociali ad un normale rapporto di affidamento di servizi, assoggettando di conseguenza le cooperative sociali alla normativa ordinaria in materia di affidamenti della pubblica amministrazione (prima il d.lgs. 157/1995, poi il d.lgs 163/2006 e ora il D.lgs. 50/2016); dall’altra il tentativo di introdurre, sia attraverso la legislazione speciale, sia nel corpus delle leggi in materia di appalti, elementi in grado di recepire e tradurre le specificità di questo rapporto. Ecco allora la 381/1991 introdurre all’art. 5 la possibilità di affidamenti in deroga finalizzati all’inserimento lavorativo, la 328/2000 e il conseguente DPCM del 30 marzo 2001 introdurre le istruttorie di coprogettazione. E sul fronte delle norme ordinarie, già nel 163/2006 la previsione, seppure allora in forma pasticciata e poi migliorata nel 50/2016, dei “contratti riservati” per l’inserimento delle persone con disabilità.

Nel frattempo, a livello regionale e locale, molte sono state le sperimentazioni tese ad enfatizzare, entro quanto consentito dalla legge nell’ambito della dialettica prima descritta, le specificità del rapporto tra enti pubblici e terzo settore: dai patti di sussidiarietà introdotti nel 2010 dalla Regione Liguria, ai tanti Regolamenti comunali che prevedono una riserva di affidamenti per le cooperative sociali, ai casi di Comuni che regolano e attuano forme avanzate di coprogettazione. Ma accanto alle sperimentazioni locali, l’idea della peculiarità della relazione tra enti pubblici e terzo settore nonché degli affidamenti nei servizi alla persona si avverte anche nelle direttive europee 2014/23/UE e 2014/23/UE del 26 febbraio 2014, attente a temi quali gli appalti riservati, gli affidamenti nell’ambito del welfare, le clausole sociali.

Pochi mesi dopo queste ultime norme la riforma del terzo settore approda alle aule parlamentari; ma il clima è cambiato.

Nel dicembre 2014, scoppia lo scandalo “Mafia capitale”. Le allusioni che “con i migranti ci si fa più soldi che con la droga” e la reazione di indignazione che ne segue segnano per molti mesi il dibattito sui mezzi di informazione e anche la discussione parlamentare assume accenti molto diversi da quelli precedenti. L’impresa sociale che riceve affidamenti dalle pubbliche amministrazioni diventa in quella fase un soggetto sospetto, da sottoporre e controlli e restrizioni o comunque da assoggettare alle modalità di affidamento utilizzate per la generalità delle imprese. Poco conta che, a ben vedere, la gran parte degli scandali si siano verificati utilizzando, in modo criminale, gli strumenti del mercato, gli stessi in uso con qualsiasi impresa. Una manovra a tenaglia tra informazione alla ricerca dello scandalo, l’assunzione acritica da parte della politica delle indicazioni dell’ANAC – nuovo punto di riferimento etico indiscusso e indiscutibile – per cui il bene è solo nella concorrenza, inaugurano una fase in cui l’unico spazio culturalmente agibile è quello delimitato dai concetti di competizione, gare d’appalto, mercato. Il principio di collaborazione è messo all’angolo, zittito, ammutolito. La legge 106/2016 viene approvata in questo clima.

Così, mentre da una parte la legge riconosce ampiamente il terzo settore per la sua valenza di interesse generale e assume un’impostazione ispirata alla sussidiarietà, i criteri direttivi introdotti all’art. 4, comma O, le uniche poche righe su una norma di molte pagine a trattare l’argomento, fanno riferimento solo a principi e criteri quali il “rispetto di standard di qualità e di impatto sociale del servizio, obiettività, trasparenza e semplificazione e nel rispetto della disciplina europea e nazionale in materia di affidamento dei servizi di interesse generale, nonché criteri e modalità per la verifica dei risultati in termini di qualità e di efficacia delle prestazioni”.

Nulla di oggettivamente censurabile, ma il problema non è quello che c’è scritto, bensì quello che non c’è scritto. I riferimenti culturali al “secondo termine della questione”, ai principi di cooperazione e sussidiarietà, pur ben presenti nell’impianto della legge, quando si tratta di parlare di rapporti tra pubblica amministrazione e terzo settore pudicamente (e contraddittoriamente!) spariscono, sono omessi, sovrastati dai riferimenti culturali al primo dei due termini: obiettività e trasparenza in primis. La legge 106/2016, molto interventista negli ambiti più vari, qui diventa afasica, timida, pudica.

Fortunatamente un anno dopo, quando viene approvato il d.lgs. 117/2017 che attua la legge delega, vi sono le condizioni culturali per ricondurre il tema del rapporto tra enti pubblici e terzo settore alla coerenza con il resto della Legge e ai principi di sussidiarietà che essa contiene. L’art. 55 delinea infatti un modello in cui:
  • enti pubblici e terzo settore lavorano insieme all’individuazione dei “bisogni da soddisfare, degli interventi a tal fine necessari, delle modalità di realizzazione degli stessi e delle risorse disponibili” (co-programmazione);
  • nell’ambito del quadro delineato dalla co-programmazione, procedono alla “definizione ed eventualmente alla realizzazione di specifici progetti di servizio o di intervento” (co-progettazione);
  • e, relativamente alla scelta dei soggetti con cui la pubblica amministrazione intraprende la co-programmazione e la co-progettazione, l’art. 55, anziché la competizione in gare di appalto, individua lo strumento dell’accreditamento, inteso come individuazione, nel rispetto dei principi di trasparenza, imparzialità, partecipazione e parità di trattamento, dei soggetti con i quali realizzare, secondo principi collaborativi, la co-programmazione e la co-progettazione.
Insomma, nel d.lgs 117/2017 si sono recuperati i principi guida che hanno fatto la storia (positiva!) del partenariato tra pubbliche amministrazioni e terzo settore in questi trent’anni e che ispirano i principi della riforma.

Si tralasci il fatto che il legislatore paia essere – soprattutto in questi ultimi tempi – “umorale”, legato al contingente nel redigere atti che dovranno sopravvivere almeno 15 o 20 anni; concentrandosi sul risultato finale – e al netto di tutto ciò che seguirà nella fase applicativa, sia dal punto di vista normativo che giurisprudenziale – si può affermare che l’art. 55 del D.lgs 117/2017 legittimi, rilanci e ambisca a diffondere e generalizzare le tante prassi collaborative che in questi anni si sono sviluppate nei territori; sicuramente una opportunità da non sprecare, ma anzi da sviluppare costruendo modalità di affidamento dove trasparenza e evidenza pubblica siano funzionali a individuare l’insieme dei soggetti di terzo settore che, ben consapevoli della propria funzione pubblica, agiscano in modo collaborativo mettendo risorse e intelligenze a servizio di un progetto condiviso con le istituzioni.

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