L’accostamento di questi tre concetti non è scontato. Nella maggior parte dei casi quando ci si riferisce all'industria 4.0 si parla di tecnologie, innovazioni, investimenti e macchinari. Qui si propone un'altra prospettiva che sceglie di intendere il fenomeno industria 4.0 come un processo sociale e non come mera promozione di innovazione tecnologica al servizio della produzione. (Scopri di più su: BeneComune.net)
L’accostamento di questi tre concetti non è scontato. Nella maggior parte dei casi quando si parla di industria 4.0 si parla di tecnologie, innovazioni, investimenti e macchinari. Qui si propone un'altra angolazione dello sguardo, che è frutto della scelta precisa di intendere il fenomeno industria 4.0 come un processo sociale e non come mera promozione di innovazione tecnologica al servizio della produzione. Come processo sociale coinvolge sia i meccanismi di formazione della conoscenza e dell’innovazione sia i meccanismi di organizzazione del lavoro, temi chiave del costrutto innovazione sociale e dell’impresa sociale.

Nel corso degli ultimi anni il tema del lavoro, o forse sarebbe più opportuno dire del non lavoro, è diventato centrale nel campo delle politiche sociali. Le ragioni sono molte ma per motivi di spazio e di economia del discorso possiamo semplificarle attorno a due.

La prima, quella più lungamente e approfonditamente trattata, imputa le cause del lavoro/non lavoro all’avvento del paradigma dell’economia della conoscenza e alla rapidità con la quale i saperi professionali diventano obsoleti in una organizzazione del capitale e del lavoro orientata alla produzione continua di nuovi saperi e innovazione. Secondo questo approccio, per rispondere proattivamente ai rischi connessi al non lavoro è necessario promuovere azioni di formazione continua per dotare gli individui di quelle competenze indispensabili a reggere le pressioni di un mercato del lavoro che richiede uomini e donne sempre più flessibili (Sennet 1999). Derivata di questa visione è la flexicurity (Keune & Serrano 2014), ovvero l’introduzione di forme di sicurezza sociale per i sempre più frequenti periodi di non lavoro.

La seconda prospettiva ribalta in parte la prima; non mette al centro della sua riflessione persone flessibili da aggiornare continuamente ma veri e propri jobless, i cui lavori sono stati rimpiazzati da macchine o da variegati processi di automazione. Una derivata di questo approccio è l’emergere di proposte finalizzate al reddito di cittadinanza, universale, di base, minimo, etc. L’idea di fondo è piuttosto chiara e lineare, efficace anche quando assunta dal suo lato poco sociale o umanitario: il progresso tecnologico renderà obsoleta parte della forza lavoro mondiale, che però un reddito minimo di sopravvivenza potrà contribuire a rendere ugualmente utile al sistema economico come produttrice di dati digitali e come consumatrice di prodotti.

È interessante notare come questi due discorsi riescano a mettere d’accordo i tre regimi di stato sociale enucleati da Esping-Andersen nel 1990: conservative/corporatist, liberal e social democratic. Il modello americano con quello europeo, insomma.

Discutere oggi di Industria 4.0 senza discutere anche di lavoro/non lavoro e di possibili forme di reddito sociale sarebbe come cercare di conversare di applicazioni e connettività senza avere a mente cosa sia e come funzioni uno smartphone: impossibile o comunque poco proficuo.

Allo stesso modo non è superfluo elencare i modi, essenzialmente due, nei quali si parla di industria 4.0 associata all’innovazione sociale. Il primo dei due, quello più di moda e visibile, disegna un futuro artigiano (Micelli 2011) dove le nuove tecnologie consentono nuove forme collaborative e aperte di organizzazione del lavoro. Il secondo, forse meno famoso ma ugualmente rilevante, prospetta la centralità di nuovi luoghi dell’innovazione (Montanari & Mizzau 2016) e di imprese ibride (Venturi & Zandonai 2016). Entrambe queste visioni evocano forme di innovazione cooperativa e di produzione culturale collettiva (Subirats 2011). Alla situazione di crisi del lavoro/non lavoro propongono risposte sia attraenti per i meccanismi di mercato sia di valorizzazione di gruppi e organizzazioni che sostengono meccanismi di cooperazione sociale capaci di superare la storica dicotomia Stato-mercato.

Come testimoniato dalle sempre più imponenti iniziative della Commissione Europea a queste risposte ci si affida per contrastare il problema crescente della segregazione urbana e delle manifestazioni spaziali di crescita delle disuguaglianze. In Italia hanno colpito meno duramente rispetto ad altri paesi, ma hanno ugualmente lasciato il segno. Laddove né i meccanismi di pianificazione e regolamentazione del territorio né le politiche sociali tradizionali né i meccanismi di mercato hanno portato a città e aree metropolitane più egualitarie, ci si affida oggi all’innovazione sociale. Questo però avviene di frequente senza porsi una domanda cruciale: siamo tutti in grado di generare innovazione sociale?

Una valida risposta a questa domanda arriva da un interessante lavoro di 4 ricercatori catalani che nell’articolo El papel de la innovación social frente a la crisis (Blanco et al 2016), in esito alla mappatura di oltre 700 pratiche di innovazione sociale e a un'analisi comparativa di sei studi di caso, propongono la tesi che l'innovazione sociale non si verifica necessariamente tra le comunità più svantaggiate, ma piuttosto tra i gruppi con le maggiori risorse per l'azione collettiva. Secondo loro, quindi, non sarebbero i più colpiti dalla crisi ad essere favoriti nella produzione di innovazione sociale bensì quelli che hanno gli strumenti immateriali (cognitivi, culturali, relazionali, etc) e materiali (beni, denaro, mezzi, etc) per farvi fronte, con il rischio conseguente di aumentare le disuguaglianze che si vorrebbero contrastare.

Discutere di, e ancora di più programmare l’industria 4.0 senza avere in mente questi rischi potrebbe significare aumentare ancora di più i fattori di disuguaglianza sociale. Al contrario, si potrebbero immaginare e favorire forme di innovazione tecnologica capaci di supportare movimenti cooperativi e di emancipazione.

Questa rappresenta una possibile sfida sia per i movimenti sociali e imprenditoriali che attorno a questi temi ed esperienze sono nati di recente (ad es. i Fablab, i coworking, etc) sia per le tradizionali imprese sociali (cooperative sociali in primis). È forse dall’incontro tra queste due famiglie di imprese che potrebbe scaturire l’inaspettato, ovvero lavorare sul paradosso delle forme emergenti di economia sociale: per le prime la scarsa presenza di modelli cooperativi per la gestione di nuovi processi e per le seconde la presenza di imprese che dichiarano di avere nello sharing il loro principio di regolazione. È così che l’industria 4.0 potrebbe evolvere dall’innovazione tecnologica a quella sociale, ad una nuova imprenditorialità sociale vista come opportunità per generare processi di cambiamento organizzativo delle imprese, sociali e non, e del lavoro.

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