La Terra non ci chiede di rinunciare a nulla, anzi ci indirizza solo a privarci delle derive letteralmente “tossiche”, insalubri e ingiuste del nostro modello. Ci dice che condizione della sostenibilità è la salute individuale e collettiva, non la penuria, e che la conseguenza è un gran bel regalo: un po’ più di giustizia e pace. (Scopri di più su: BeneComune.net)
Un’era diversa è cominciata, per la sfida dello sviluppo, nel 2016. Una nuova “Agenda”, approvata dalle Nazioni Unite e incentrata su 17 obbiettivi, traccia la rotta delle strategie mondiali di sviluppo fino al 2030, innestandosi sul piano di sviluppo globale 2001-2015, noto come “Obbiettivi del Millennio”. Questi ultimi, 8 ambizioni basilari e facili da comprendere, cedono il passo all’Agenda 2030: un’architettura molto più articolata in cui i più numerosi obbiettivi sono ulteriormente specificati in 169 traguardi puntuali, a loro volta da assoggettare a un monitoraggio rigoroso tramite indicatori quantitativi. Tuttavia, l’articolazione più complessa è solo l’aspetto esteriore di un radicale cambio di prospettiva portato dalla nuova Agenda. La sua vera novità non è che i nuovi obbiettivi sono più numerosi e meglio specificati, bensì che essa riflette una nuova consapevolezza sul mondo in cui viviamo: l’equilibrio con l’ambiente.

Introdurre l’ambiente nello sviluppo è una cosa diversa dall’aggiungere un nuovo ventaglio di obbiettivi supplementari; significa piuttosto che gli obbiettivi di sviluppo umano di sempre devono essere ridefiniti entro un sistema reattivo che ci circonda. Si tratta di un cambio di prospettiva profondo, con cui iniziamo a guardare al futuro dell’umanità non come un assoluto, bensì nel contesto di interdipendenze ed equilibri che reggono il funzionamento di un sistema più ampio di cui siamo parte: un sistema condiviso che dobbiamo pertanto gestire tutti assieme e che, come la casa di ogni famiglia, deve essere mantenuto in equilibrio in tutti i suoi elementi, sia umani che fisici, e nel modo in cui questi elementi interagiscono.

Tendiamo a dare per scontato l’equilibrio con il pianeta. Dimentichiamo così che senza equilibrio non ci può essere crescita e nemmeno organizzazione sociale: nella sfera umana, gli squilibri – compresa la gigantesca iniquità nella distribuzione delle ricchezze - portano instabilità, ingiustizia e conflitti; sul piano dell’ecosistema, l’equilibrio ci dà la prevedibilità di tutti quei servizi della natura – stagioni regolari o la ragionevole aspettativa che un certo campo produrrà del grano – senza cui è impossibile organizzare le società e le economie. Questi due equilibri sono in realtà tutt’uno, e l’uno si degrada al degradarsi dell’altro.

I numeri non mentono, e la scienza è preoccupata: a causa dell’impatto umano, l’ecosistema potrebbe giungere a un punto di svolta e rapidamente collassare. Le specie si estinguono a un ritmo preoccupante – oltre cento volte più rapido rispetto ai periodi normali. I cambiamenti climatici stanno accelerando; si degradano e muoiono 12 milioni di ettari di terre ogni anno; negli ultimi cento anni è stato perso l’80% della biomassa ittica, e la tendenza è in accelerazione, poiché il 60% è venuto meno negli ultimi quarant’anni.

Questi sono solo alcuni dei fronti su cui si manifesta il degrado dell’ambiente, e non sono fronti separati. La preoccupazione maggiore è che queste dinamiche si alimentano a vicenda – la perdita di biodiversità, ad esempio, aggrava i cambiamenti climatici e questi, a loro volta, favoriscono la perdita di biodiversità. Anche all’interno di ciascuno di questi fenomeni, presi uno per uno, rischiamo di oltrepassare una soglia cruciale, oltre la quale il degrado si autoalimenta a ritmi sempre più accelerati. Lo dicono numeri, tra l’altro, per il riscaldamento globale, proiettato entro questo secolo a incrementi superiori ai 4 gradi: uno scenario che sconvolgerebbe l’ecosistema e destabilizzerebbe le società.

Appunto, la società: il collasso dell’ambiente è anche un problema per l’umanità. Ci sentiamo a volte separati dalla natura, ma tutte le nostre società si sono organizzate contando sulla prevedibilità dei suoi cicli e dei servizi che essa ci offre. Se questi vengono meno, dovremo adattarci – cioè riorganizzare le società e la produzione, e in diversi casi migrare verso terre sicure – cosa che sta già succedendo: parte del dramma dei migranti cui assistiamo è dovuto ai cambiamenti climatici. Ma è difficile che questo adattamento si raggiunga senza sostenere lo sviluppo dei più deboli: sono già 78 i conflitti che hanno fra le cause i cambiamenti climatici; e questi tendono a concentrarsi nelle regioni più povere e nelle aree di provenienza dei recenti e drammatici movimenti migratori. I loro popoli dipendono più direttamente dalla salute della natura e dalla vitalità dei suoi servizi, sulla cui abbondanza e prevedibilità si sono strutturate tutte le società e le economie: la fertilità della terra, e quindi anche la produttività agricola, anzitutto; ma pure servizi di purificazione svolti dalle zone umide, di varietà biologica, di stabilità dei climi locali, di equilibrio bio-sanitario, fino a servizi di identità culturale legati ai territori. Il riscaldamento avanza - ed erode i servizi ecosistemici - nei paesi in via di sviluppo più che altrove e, nelle regioni povere, un mancato raccolto o una foresta che avvizzisce, non sono solo una sfida economica ma un drammatico problema di diritti umani, laddove fanno la differenza fra tenere o meno una bambina sui banchi di scuola. Il degrado della natura mina così alla base la coesione e la stabilità delle comunità rurali meno solide e ciò si riverbera sulle aree urbane: crea insicurezza, conflittualità e spinte ai movimenti forzati di popolazioni.

Assistiamo cioè a un minaccioso ciclo cumulativo fra degrado dell’ambiente, ingiustizia, e peggioramento delle condizioni umane. Ma la buona notizia è che questo ciclo può essere invertito, che l’interdipendenza fra umanità e ambiente può essere messa in moto per risolvere il problema in tempi rapidi e che ciò non comporta sacrifici e rinunce. Al contrario, quello che la natura ci chiede per salvarsi è che tutti facciamo quello che veramente ci fa stare bene. Invertire questo ciclo è la prospettiva pratica d’integrazione fra umanità e pianeta proposta dall’Agenda 2030.

Questa nuova idea supera il timore che avevamo di un insanabile conflitto fra natura e sviluppo: visto che la produttività dell’ecosistema non è infinita – si pensava - ciò avrebbe imposto un freno al progresso. Scopriamo invece una risonanza positiva fra salute dell’ambiente e benessere umano. Ma c’è una condizione: questa risonanza positiva non funziona se scegliamo come benessere e qualità della vita solo la ricchezza materiale. Farne un idolo assoluto effettivamente ci porta a dire che i limiti della natura pongono dei limiti alla crescita economica. Se invece scegliamo come idea di benessere l’insieme dei bisogni umani – non solo cose, ma anche pace, città sicure, salute, tempo per la famiglia – scopriamo che proteggendo la natura lei diventa un propulsore del progresso e non un freno e che, viceversa, un progresso che tutela l’essere umano nella totalità dei suoi bisogni diventa un alleato della natura invece di un suo nemico.

L’idea di un ciclo costruttivo e risuonante fra vero benessere umano e del pianeta – ovvero l’ecologia integrale – comincia ad essere applicata dalla politica: nei grandi accordi internazionali, dalle Nazioni Unite, e via dicendo. Ma può entrare a far parte anche delle nostre vite; anzi, deve entrare nel nostro quotidiano perché senza ognuno di noi tutto è perduto. L’ecosistema non reagisce ai trattati, alle leggi, ai tassi di interesse; reagisce a concreti comportamenti di ognuno di noi e quindi, se anche raggiungessimo i migliori accordi e le più straordinarie leggi a tutela della natura, non servirebbe a nulla se noi non ci mettiamo in moto. Noi, gente comune, siamo la soluzione. E se decidiamo di impegnarci, abbiamo tutto da guadagnare.

Un paradigma di come opera questa intima interconnessione coerente – e di come possiamo farla entrare nelle nostre vite - ci è fornito dalla fondamentale questione del diritto di tutti al cibo. I cibi di cui si compongono le diete più salutari sono quelli che possiedono l’impronta ecologica più lieve: se si accosta la piramide che indica in che proporzione dovremmo nutrirci di ogni categoria di alimenti per stare bene, a quella del loro impatto sull’ecosistema, coincidono quasi perfettamente.

In altre parole, se noi ci nutriamo nel modo migliore per la nostra salute – diminuendo le proteine animali e nelle proporzioni raccomandate per ciascun gruppo di sostanze nutritive - creiamo sostenibilità e quindi equilibrio ambientale: due piccioni con una fava. O magari, i piccioni sono addirittura tre: se le società dell’agio smettono di accaparrarsi eccessi di proteine animali, creano salute per sé stesse ma anche giustizia umana su scala globale, ovvero equilibrio sociale, oltre che equilibrio ambientale. I piccioni diventano tre perché una scelta di benessere individuale protegge l’ambiente e corregge una situazione per cui il malessere obeso degli uni è pagato col malessere sottonutrito degli altri.

Una dieta realmente salutare creerebbe equilibrio ecologico ed equilibrio sociale. Oppure, una dieta pensata come rispettosa dell’ambiente, favorirebbe l’equità sociale e il benessere degli individui. O ancora, una distribuzione delle risorse alimentari equa tutelerebbe l’ambiente e favorirebbe la salute individuale: qualunque dei fattori si voglia scegliere come obbiettivo, finisce che benessere individuale, giustizia e rispetto dell’ambiente si perseguono tutti assieme e paiono aspetti di un'unica armonia, di un equilibrio coerente. E non è finita qui! Se noi creiamo giustizia – proteggendo noi stessi e la natura – arriviamo anche al traguardo che da sempre cerchiamo e che non abbiamo mai raggiunto, la pace. In un mondo in cui ogni bambino ha il cibo necessario per crescere, studiare, diventare cittadino produttivo e responsabile, c’è meno posto per l’ISIS, per Boko Haram, per le guerre, per lo sfruttamento e la schiavitù. Questa è l’ecologia integrale e ci riguarda tutti, in prima persona: ed è la prospettiva dell’Agenda 2030.

La questione del cibo è solo un esempio, un segmento, di un meccanismo molto più vasto e potente. Che dire del rapporto fra autotrasporto ossessivo, inquinamento e malattie della sedentarietà? dello strano fatto che le attività eco-compatibili tendono a generare più impiego di quelle che degradano l’ambiente? del riequilibrio e della carica di giustizia insiti nella riconosciuta necessità di trasferire tecnologie e risorse ai Paesi più poveri per metterli in grado di concorrere alla sfida globale del clima?

Non sono coincidenze casuali. Si tratta di un meccanismo di portata generale, un moltiplicatore – da indirizzare verso cicli cumulativi catastrofici o verso il vero benessere – che ci pone in fraternità con la natura. La Terra non ci chiede di rinunciare a nulla, anzi ci indirizza solo a privarci delle derive letteralmente “tossiche”, insalubri oppure ingiuste del nostro modello. Ci dice che condizione della sostenibilità è la salute individuale e collettiva, non la penuria, e che la conseguenza è un gran bel regalo: un po’ più di giustizia e pace.

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