Ci sono molti aspetti della riforma del terzo settore che destano preoccupazioni e critiche. Del resto, si tratta di una legge che è nata da un insieme di aspettative, motivazioni e interessi diversi tra loro e anche reciprocamente incompatibili, che la discussione in parlamento e la definizione dei decreti attuativi non sono stati in grado di comporre né di selezionare. (Scopri di più su WelForum.it)
Per quanto meriterebbe una attenta disamina, non è su questo punto che voglio soffermarmi, quanto su quello che a me pare l’elemento più interessante e promettente della legge stessa. Mi riferisco al riferimento, tanto nella definizione delle organizzazioni che in diverse previsioni di carattere operativo, dello svolgimento di attività di interesse generale come elemento distintivo e qualificante delle organizzazioni di terzo settore. Questa previsione ha direttamente a che fare con il principio di sussidiarietà introdotto nella riforma costituzionale del 2001 (art. 118), che riconosce un rango costituzionale alle attività svolte dai cittadini e non alle forme che ciò assume, e nello stesso tempo riflette le ragioni della nascita e le caratteristiche dello sviluppo dell’attivismo civico in Italia.

Tuttavia, il passaggio dai principi alla realtà è tutt’altro che scontato, come dimostra il testo del decreto sul codice del terzo settore approvato dal governo e il disarmante elenco di attività che esso contiene, in cui (dalla A alla Z) c’è un po’ di tutto e in cui tutti troveranno la loro nicchia senza cambiare pratiche inconsistenti quando non discutibili a scapito di quelle di maggior valore, ma in cui, ad esempio, attività come quelle di tutela dei consumatori non sono previste, e non lo sono nemmeno forme di impegno nella politica sanitaria che non consistano nell’attuazione dei Lea, cioè che non siano al servizio del governo.

Il punto è che definire le attività di interesse generale è un compito che non permette scorciatoie. In un paper messo a punto proprio in vista dell’attuazione della legge, Fondaca ha proposto un approccio nel quale si cerca di prendere questo compito più sul serio. Il nucleo del paper è una definizione dell’interesse generale come impegno a rimuovere gli ostacoli che si frappongono al pieno sviluppo della persona, secondo quanto previsto dall’articolo 3 della Costituzione. Su questa base vengono identificati quattro ruoli in cui, in una molteplicità di forme e di strategie operative (dall’advocacy ai servizi all’intervento diretto), tale impegno si concretizza: la tutela di diritti esistenti o l’impegno per il riconoscimento di nuovi diritti, la cura di beni comuni materiali e immateriali, l’empowerment (cioè il sostegno all’autonomia, non l’assistenza) di soggetti in condizioni di debolezza, l’arricchimento e la estensione dell’attivismo civico.

Ciò non è tuttavia sufficiente. Il paper mette l’accento sul fatto che occorre stabilire dei criteri che permettano di identificare l’interesse generale nei diversi contesti in cui esso è in gioco. L’interesse generale, infatti, ha una natura contingente e muta nello spazio e nel tempo, non solo con riferimento a norme e atti amministrativi, ma anche come effetto della vita della comunità politica. Vengono quindi proposti e articolati quattro tipi di criteri, relativi alle situazioni, ai target, alle condizioni di accesso, ai benefici. Questo è necessario, se si vuole evitare di attribuire lo stesso grado di interesse generale a un centro di aggregazione giovanile in una zona ad alta densità mafiosa o in un quartiere gentrificato; o non considerare la rilevanza dei costi di accesso a tanti servizi sociali e sanitari gestiti da cooperative sociali e associazioni di volontariato; o la molteplicità dei benefici che possono essere generati dagli empori sociali in paragone a pure e semplici attività di assistenza a persone in difficoltà economica.

Su questa base può essere articolato un sistema di indicatori che possano essere utilizzati non solo dalle amministrazioni nel valutare, ad esempio, quali progetti finanziare, ma anche dai donatori privati e dalle stesse organizzazioni del terzo settore. Queste ultime potranno così rispondere alla domanda che sempre più viene loro rivolta, di dimostrare la loro utilità sociale non in forza degli statuti o della benevolenza del potere politico e amministrativo, o ancora della loro forza relazionale e comunicativa, ma solo della loro capacità di fare la differenza nella realtà.

Una condizione appare indispensabile perché tutto ciò abbia luogo: quella di superare una visione comune ma distorta del terzo settore che poggia su tre grandi pregiudizi, strettamente legati tra loro. Il primo è che il terzo settore abbia a che fare solo con le politiche di welfare, dimenticando ad esempio l’ambiente, la immigrazione, i diritti umani, la sicurezza, la giustizia, la qualità urbana come campi di azione della massima importanza. Il secondo pregiudizio è che le organizzazioni di terzo settore abbiano come ruolo tipico quello di erogare servizi, attribuendo un posto marginale alle forme di advocacy e di intervento diretto che qualificano allo stesso modo queste organizzazioni. Il terzo è la definizione della rilevanza di queste organizzazioni in termini esclusivamente economici, quando è evidente che molte delle attività da loro svolte non hanno alcun rilievo o significato economico e addirittura, come nel caso dei diritti umani o di molti diritti costituzionali, proprio non devono averlo.

Tale visione, è superfluo rilevarlo, è massicciamente presente anche nell’impianto della legge e nei documenti ad essa connessi; ed è inoltre il presupposto implicito dell’evidente disegno di “governamentalizzazione” del terzo settore che si basa su una ingenua applicazione del modello corporativo, che da tempo non funziona più nemmeno per i sindacati e le associazioni datoriali. Gli ostacoli, insomma, non sono indifferenti. Ma, come ho già detto, se si vuole fare “buon uso” del terzo settore bisogna prendere la strada principale. Ogni scorciatoia finirà per rivelarsi un vicolo cieco.

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