Come ogni organizzazione non profit, fosse anche minuscola, dovrebbe trattare i suoi sostenitori? E perché? Anticipo solo la risposta a quest’ultima domanda: perché un sostenitore che si sente “trattato bene”, è sempre più propenso a ripetere (e, casomai, anche ad aumentare) il suo sostegno. (Scopri di più su: FundraisingKmZero.it)
Diciamo sempre che il fundraising (che sia per raccogliere fondi o tempo o competenze) è una questione di relazioni. E allora, perché tante piccole organizzazioni hanno così poca attenzione a come curano le relazioni con i propri sostenitori?

E cosa possono fare le piccole organizzazioni per migliorare la cura e quindi la qualità delle relazioni coi donatori e con i volontari?

Ne ho parlato con Gian Carlo Mocci, Presidente di AICEX – Associazione Italiana Customer Experience, si occupa di Customer Experience, Gestione delle Relazioni con i Clienti e Loyalty (se non hai confidenza con l’inglese: “fedeltà”).
A Gian Carlo va il mio sentito “grazie” per aver prestato la sua conoscenza ed esperienza sul campo a beneficio delle piccole organizzazioni non profit che davvero vogliono crescere nel fundraising.

Buona lettura!


Ciao Gian Carlo! Andiamo subito al sodo: cosa rischia un’organizzazione non profit che cura poco o male i rapporti con i suoi sostenitori?

Faccio una premessa: i donatori vanno considerati come clienti a tutti gli effetti.

Le organizzazioni non profit sono aziende e come per ogni azienda, il rischio è di perderli e di andare fuori mercato. Anche quello del non profit e del fundraising è un mercato, nel quale esiste la concorrenza e in cui i donatori sono un numero finito. A questo, si aggiunge che il classico modello dello Stato centrale o periferico che sovvenziona il non profit si sta sempre più riducendo…

Quindi, le organizzazioni non profit devono diventare sempre più capaci di trovare la propria posizione in questo mercato e di tenersene stretta una quota!


E quindi, perché avere poca cura dei rapporti con un donatore è così rischioso?

Perché le organizzazioni rischiano o di perderli, o di vederseli portare via!

Come dicevamo, la concorrenza nel non profit esiste: le grandi organizzazioni “contro” le grandi organizzazioni, le piccole “contro” le piccole… ma anche le grandi “contro” le piccole e le piccole “contro” le grandi, perché la sfida per le risorse, che sono sempre limitate, è sempre più competitiva, così come lo è anche la battaglia per conquistare i donatori! Così, chi è più capace può riuscire a conquistare il donatore di un’altra organizzazione, a portarlo via dalla causa che già sosteneva…

Poi, teniamo conto che acquisire un nuovo donatore costa molto di più di mantenerlo vicino e fedele. Dopo la prima donazione, i costi da affrontare per fidelizzare il sostenitore sono minimi (può bastare una lettera inviata regolarmente, una telefonata…). Lo sanno bene anche le aziende profit, che infatti investono moltissimo nel “customer care”, inteso in senso lato, proprio per prendersi cura dei clienti e fare in modo che la loro esperienza complessiva sia soddisfacente e gratificante. E così come nel settore sanitario si parla di Patient Experience, allo stesso modo nel non profit si dovrebbe parlare di “Donor Experience”!


Ma in pratica, cosa vuol dire curare la “donor experience”? Solo mandare una newsletter regolarmente, o è qualcosa di più?

Per ridurre ai minimi termini, “curare l’esperienza del donatore” vuol dire fare in modo che abbia un bel ricordo dell’organizzazione non profit. Se al sostenitore resta un bel ricordo, allora farà passaparola, sarà più propenso a ripetere o aumentare nel futuro la donazione, a prestarsi come volontario…

Però, perché questo effetto virtuoso si verifichi, l’organizzazione deve essere capace di innescare una dinamica di relazione e di dialogo. Bisogna smetterla di ricordarsi dei sostenitori solo quando c’è bisogno di sostegno e questo principio vale su tutti i canali, per strada, al telefono, via e-mail, sui social media. “Coinvolgere” significa dire al cliente/donatore che è speciale, che senza di lui molto non sarebbe affatto possibile.


Ma non ti sembra un po’ forzato questo paragone tra cliente di un’impresa e il donatore di un’organizzazione non profit?

No, anzi, a dirla tutta sia il donatore che i volontari che coloro che beneficiano dell’operato delle organizzazioni sono da considerarsi dei clienti.

Ma concentriamoci adesso sul donatore, che è un tipo di cliente davvero speciale!

Il donatore paga senza sapere cosa sta comprando e non porta a casa nulla: non cenerà in un bel ristorante, non calzerà un paio di scarpe nuove, non indosserà un maglione…

Il donatore sopporta un’uscita economica certa a fronte a un risultato incerto, e talvolta ignoto. Infatti, per quante promesse possa fare l’organizzazione non profit, non si può mai dare per scontato che riesca a realizzare quanto promesso!

Invece se acquisto una camicia, quella indosserò per certo, e se è difettosa la posso restituire, per ottenerne una nuova e impeccabile o per richiedere il rimborso della somma spesa.

Il donatore fa una scommessa enorme: ripone la sua fiducia in un progetto sapendo già che esiste la possibilità del fallimento. Ma dona lo stesso, ha fiducia che l’organizzazione ci proverà, ce le metterà tutta, farà veramente del suo meglio per realizzare quel che promette. Di fatto fa un investimento.

Il donatore si espone personalmente fino a questo punto, ma poi le organizzazioni…


Già, che cosa sbagliano più di frequente le organizzazioni non profit rispetto alla cura del sostenitore?

Si dimenticano di avere una storia da raccontare, e oltretutto si dimenticano che questa storia appartiene tanto a loro quanto al donatore!

Nella comunicazione ai sostenitori di moltissime organizzazioni non c’è neppure una traccia temporale del tipo: “Caro Gianni, 2 anni fa ci hai fatto una donazione. Con il tuo aiuto abbiamo costruito 7 pozzi per l’acqua, cosa ne dici di aiutarci ancora? Così potremo costruirne altri 5, e in tutto i pozzi saranno 12”.

Non c’è un rimando positivo a quanto già fatto, cioè alla storia condivisa col sostenitore, di cui il sostenitore è a tutti gli effetti il protagonista! Troppo di frequente non c’è neppure un aggiornamento sui lavori in corso, sullo sviluppo dei progetti, che è una forma importantissima di rendicontazione e di trasparenza.

Molto di rado le organizzazioni non profit si attivano con “campagne di cortesia”, che non abbiano lo scopo di chiedere, ma di raccontare, anche solo per dire: “Ecco, guarda cosa stiamo facendo col tuo sostegno. Speriamo che tu sia soddisfatto, noi lo siamo”. Quello diventerebbe anche l’occasione per ammettere delle difficoltà e, soprattutto, celebrare dei successi… il donatore ha già accettato che non tutto potrà essere perfetto, ma sente il bisogno di sapere che l’organizzazione ce la sta mettendo tutta, in altre parole ha bisogno di essere “rassicurato”, e lui ricambierà con la fiducia.

Così facendo, cioè avendo poca cura di questi aspetti, sono le organizzazioni non profit stesse ad alimentare una certa diffidenza, che poi esplode ogni tanto sulle pagine dei giornali: io come donatore/cliente non so che fine fanno le donazioni e questa opacità è un enorme freno psicologico a continuare il sostegno o a cominciare una nuova “storia di donazione”.


Ma fammi capire Gian Carlo… sviluppare un simile approccio alla cura del sostenitore, è una cosa da grandi organizzazioni?

No, assolutamente no. E sai perché? Perché per essere vicini e sinceri non serve budget!

Le cose migliori sono a costo zero o quasi: spesso sono i dettagli e le piccole attenzioni a fare la differenza.

Pensa ad esempio: una telefonata all’anno, o una email a costo zero, solo per dire “Ciao, come va? Col tuoi aiuto siamo arrivati a questo punto. Grazie!”.

Non stai chiedendo nulla, ma stai portando alla tua organizzazione ben di più di una donazione… stai portando la fedeltà del sostenitore!

Ma quello del non profit è un comparto molto particolare, mediamente più “arretrato” del profit. Come in altri ambienti un po’ chiusi e meno competitivi, deve ancora metabolizzare queste dinamiche, che invece un albergo, la grande distribuzione organizzata, una pasticceria addirittura, hanno fatto propri già da molto!

Ma resta il fatto che il donatore è un cliente, un cliente molto speciale e delicato.

Bisognerebbe anche imparare a ragionare, copiando dal profit, per “bundling di prodotti”, per cataloghi diciamo: il primo passo della storia tra l’organizzazione e il sostenitore è il dono di un mattone per un pozzo, il secondo è di una mucca, il terzo è un kit sanitario e alimentare per 1 anno, il quarto un sostegno a distanza annuale… gradualità, gradualità.


E quindi, cosa può fare una piccola organizzazione?

Ogni organizzazione, fosse anche piccolissima, ha suo valore, le sue visioni, le sue tipologie di attività… già trovare una voce distintiva, lavorando sulla comunicazione e poi innescare qualche piccola azione di “donor care” (come la telefonata di cortesia) costituiscono di per sè dei fattori differenzianti, che aiutano a distinguersi dalle altre concorrenti e a competere meglio.

Col donatore va costruita una storia, e tutte le organizzazioni non profit ne hanno tantissime: nascono quasi sempre dalla storia personale dei fondatori, crescono con quelle dei sostenitori, si arricchiscono di quelle dei beneficiari…

Questo è un percorso di costruzione di qualcosa che è naturalmente condiviso e oltretutto c’è una gradualità, ci sono degli step durante i quali si deposita un valore molto più alto di quello che potrà mai avere un paio di scarpe, un telefonino, un maglione…


Allora, se stare vicini a un donatore significa conoscerlo sempre meglio, sicuramente da parte sua riceveremo (o noteremo) dei segnali, delle “risposte”. Quali sono i più importanti per tua esperienza?

Il donatore fa una scelta, dedicare i suoi soldi alle vostra causa oppure spenderli in altro modo, quindi:
  • Quando abbiamo a che fare con chi ha donato è essenziale capire perché ha donato.
  • Quando scopriamo che, per quanto ci siamo dati da fare, c’è chi no dona… allora dobbiamo capire perché non ha donato!
  • Dobbiamo quindi chiederci: perché le persone donano, ma per davvero? Perché non donano, ma per davvero?
Nel contempo, guardiamo sempre cosa fanno gli altri, cioè i competitor del nostro stesso settore e di altri settori. Se vediamo cose molte curate, probabilmente non sono trovate creative, ma messaggi molto ben tagliati sui feedback ricevuti dai sostenitori.

Il nostro lavoro rispetto ai feedback che riceviamo o notiamo è migliorare al massimo il taglio della comunicazione e delle proposte che facciamo ai sostenitori. Più capiamo cosa desidera o non desidera un sostenitore, meglio possiamo avvicinarci non solo alla singola persona, ma a tutti gli altri che sostengono o possono sostenere la nostra buona causa.

Tecnicamente, questo significa gettare le basi per una segmentazione del nostro database clienti, ai fini della raccolta fondi. Conoscere bene la propria base clienti attuale e potenziale, avendo un occhio per le nuove generazioni e le nuove tecnologie, è fondamentale per capire cosa fare e con chi farlo. Questo perché i donatori sono diversi tra loro, sia per caratteristiche oggettive, ad esempio la capacità di spesa, sia per caratteristiche soggettive, ad esempio le motivazioni che inducono alla donazione.


Sulla base della tua esperienza, cosa spinge di più le persone a decidere se sostenere o meno una buona causa?

I due grandi ambiti di decisione sono sempre gli stessi: emozione e razionalità.

E’ normale che alcuni individui decidano più emotivamente, altri più razionalmente.

Curioso è che nel sostegno al non profit, proprio come per gli acquisti nel profit, capita che chi ha la componente razionale molto forte, è anche chi ha più denaro. Queste persone sono meno permeabili alle emozioni e le si deve stimolare sulla parte razionale, su cosa è stato fatto, sulle dinamiche operative, sull’organizzazione, sulla qualità, sulle prestazioni. Difficilmente il bambino che piange persuade questo genere di persone, anzi, rischia di infastidirle.

In ogni caso, sai cosa accomuna tutti? Il rifiuto del dolore e la voglia di “sognare” pensando al futuro. Quindi bisogna agire per tranquillizzare, gratificare, fare sentire importanti le persone coinvolte, perché spesso ciò che “comprano” con la loro donazione è uno stato di “benessere emotivo”.

E’ proprio su questo aspetto che le organizzazioni non profit, fossero anche minuscole, possono giocarsi benissimo il loro successo e il loro futuro: che sia rispetto a una piccola causa locale o a una questione di portata planetaria, il non profit è lì per riparare a delle iniquità, a delle disuguaglianze, a delle ingiustizie… per il sostenitore, il solo sapere di potersi affidare a un’organizzazione che sta affrontando questa sfida, è già una parziale “fuga dal dolore”.


Cosa consigli a una piccola organizzazione che volesse cominciare a lavorare su tutti questi aspetti da domani? Quali sono le prime 3 cose da fare?
  1. Primo: raccontate sempre cos’avete fatto in passato.
  2. Secondo: fate una promessa su ciò che farete… e fatelo!
  3. Terzo: calatevi nell’ottica di chi crea una relazione con i clienti, non di chi raccoglie una donazione. L’atto donativo dura un istante, mentre le relazioni durano nel tempo!
E poi, date ai vostri sostenitori sempre l’occasione di partecipare e di sentirsi partecipi, perché è solo attraverso la possibilità di compiere un’azione concreta (un click, un’ora di volontariato, un pensiero, una donazione…) che si sentiranno protagonisti della vostra storia.

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