Brad Evans è Docente di Relazioni Internazionali all’Università di Bristol. È fondatore e direttore del progetto Histories of Violence (@histofviolence), dedicato alla critica al problema della violenza nel 21° secolo. Tra i suoi libri più recenti ricordiamo Disposable Futures: The Seduction of Violence in the Age of Spectacle (con Henry Giroux) e Resilient Life: The Art of Living Dangerously (con Julian Reid). Di seguito riportiamo i punti salienti della sua intervista al grande pensatore Zygmunt Bauman per la serie di articoli di Filosofia del New York Times. L'intervista intera tradotta in italiano si trova qui in formato pdf. (Scopri di più su: Gariwo.net)
  • di Brad Evans e Zygmunt Bauman
Bauman, che si è occupato della tragedia dei profughi per oltre dieci anni, traccia una differenza fondamentale tra i migranti dell’era dell’imperialismo e quelli di oggi, rifacendosi a pensatori quali Hannah Arendt per definire il loro status nei Paesi d’accoglienza, dove spesso sono considerati un problema di sicurezza anziché portatori di diritti.

Ecco quindi che afferma: "I rifugiati sono “worldless”, in un mondo che è frammentato in stati territoriali sovrani, e che richiede di identificare il possesso dei diritti umani con la cittadinanza. Questa situazione viene poi aggravata dal fatto che non rimane più alcun Paese pronto ad accettare e offrire riparo e una possibilità di una vita decorosa e di dignità umana ai rifugiati: le persone che sono costrette a fuggire da condizioni intollerabili non sono considerate “portatrici di diritti”, perfino quelli che si presumono essere considerati inalienabili. Costretti a dipendere per la loro sopravvivenza dalle persone alle cui porte bussano, i rifugiati in un certo modo sono buttati fuori dal regno della “umanità”, in quanto questo è pensato per conferire diritti che non vengono loro accordati. E ci sono milioni e milioni di persone come queste, che abitano il nostro pianeta."

Il sociologo esamina quindi le paure suscitate dal fenomeno dell’immigrazione e la necessità che esse vengano portate in superficie e affrontate per trovare la soluzione alle migrazioni di milioni di persone, non più classificabili tra “migranti economici” e “rifugiati”, all’insegna del dialogo e della solidarietà umana.

"Questi flussi di migranti portano gli orrori misteriosi e oscuri, ma che si speravano in ogni caso distanti, delle “forze globali” proprio all’interno dei nostri quartieri. Appena poche settimane fa, i nuovi arrivati erano al sicuro a casa loro, come noi. Ma ora, ci guardano, privati delle loro case, proprietà, sicurezza, spesso dei loro diritti umani “inalienabili”, e del loro diritto ad avere rispetto e accettazione che forniscano loro una ragione di amor proprio.

Seguendo le abitudini dei tempi antichi, i messaggeri sono incolpati per i contenuti del loro messaggio. Non desta nessuna meraviglia che le ondate successive di nuovi immigranti vengano accolti con risentimento, per citare Brecht, come “messaggeri di cattive notizie”. Sono l’incarnazione del collasso dell’ordine, di uno stato di cose nel quale i rapporti causa-effetto erano stabili, ben comprensibili e prevedibili, permettendo a chi si trovava all'interno di una situazione di sapere come procedere. Dato che ci rivelano queste insicurezze, i rifugiati vengono facilmente demonizzati. Bloccandoli sull’altro lato dei nostri confini ben fortificati, implicitamente diciamo che riusciremo a fermare queste forze globali che li hanno portati alle nostre porte".

Per descrivere e quindi trovare il modo di affrontare questa realtà, "Abbiamo proprio bisogno di un linguaggio e di un vocabolario critico. [...]

Finché l’etichetta di “migranti economici” servirà a stigmatizzare queste vittime, il suo uso dovrebbe essere condannato. Siffatte acrobazie discorsive, infatti, lasciano le cause di queste crisi prive di un’analisi, e i responsabili impuniti. In una cultura che valorizza la ricerca dell'autorealizzazione e della felicità elevandoli al rango di scopi e significati della vita, non è altro che palese ipocrisia condannare coloro che cercano di seguire questo precetto, ma si trovano impediti a farlo dalla mancanza di mezzi o di documenti idonei".

Non mancano nell'intervista riferimenti alla grande filosofia e alla mitologia, che Bauman cita per spiegare il fenomeno delle migrazioni in chiave eminentemente storica: "Come Hegel ammoniva circa due secoli fa, la civetta di Minerva, la dea della saggezza, spiccava il volo al crepuscolo. Con questo intendo dire che noi tendiamo ad apprendere ciò che definisce i “nostri tempi” soltanto in retrospettiva, quando essi sono finiti. E raramente lo impariamo una volte per tutte, anche quando adottiamo questo sguardo retrospettivo.

Eric Hobsbawm, forse il più grande storico dell’era moderna, si era fatto coraggio per dare un nome alla “Era degli estremi” del 20° secolo, appena nel 1994. E perfino allora sentiva il bisogno di scusarsi per queste definizioni: “Nessuno può scrivere la storia del ventesimo secolo allo stesso modo in cui scriverebbe la storia di qualunque altra epoca, se non altro perché non si può raccontare l'età della propria vita allo stesso modo in cui si può (e si deve) scrivere la storia di periodi conosciuti solo dall'esterno, di seconda o di terza mano, attraverso le fonti di un'epoca o le opere degli storici successivi. L'arco della mia vita coincide quasi interamente con il periodo di cui tratta questo libro e per la maggior parte di essa, dalla prima adolescenza fino a oggi, sono stato consapevole degli avvenimenti pubblici, vale a dire ho accumulato opinioni e pregiudizi che derivano dalla mia condizione di contemporaneo più che da quella di studioso. Per questo motivo ho evitato quasi sempre nella mia carriera di storico di trattare professionalmente dell'epoca che si sviluppa dopo il 1914".

Quali sono dunque le soluzioni prospettate? Zygmunt Bauman spiega il nocciolo del suo pensiero sulla politica attuale e dunque sul suo modo di affrontare le massicce ondate di migranti" davanti alle quali l'Unione Europea si dibatte in una crisi che investe addirittura la sua identità.

"Non credo che ci sia una scorciatoia al problema attuale dei rifugiati. L’umanità è in crisi, e non c’è via d’uscita da questa crisi che non sia la solidarietà degli umani. Il primo ostacolo su questa via per uscire dalla mutua alienazione è il rifiuto del dialogo: quel silenzio che accompagna l’autoalienazione, fatto di distacco, disattenzione, disprezzo e indifferenza. Invece che in base al dualismo tra amore e odio, il processo dialettico di ridisegno dei confini deve essere quindi pensato in termini di una triade di amore, odio e indifferenza - o trascuratezza - che i rifugiati in particolare continuano a dover affrontare".
  • Brad Evans e Zygmunt Bauman, traduzione di Carolina Figini

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